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mercoledì 29 febbraio 2012

Articoli dei Soci della Sezione Studenti e Cultori della Associazione Combattenti della Guerra di Liberazione

Di seguito alcuni articoli, tutti pubblicati sotto la stessa data,di alcuni soci della Sezione Studenti e Cultori

Le operazioni a sostegno della pace

Maria Chiara Zuppardo

Nella transizione dal mondo bipolare dominato dall’immobile duello delle superpotenze, al mondo multicentrico, i sistemi militari occidentali, hanno sperimentato sia  il mutamento dell’ambiente in cui operano, che della missione che adempiono.
Se dovessimo sintetizzare in un unico concetto la natura di tali mutamenti, il superamento della logica binaria amico/nemico potrebbe essere di tutti il più appropriato. Come ben noto, il crollo del Muro di Berlino, lo scioglimento del Patto di Varsavia, l’autodissoluzione dell’Unione Sovietica hanno rappresentato la (almeno momentanea) eclissi del nemico. Ciò non significa, evidentemente, la scomparsa tout court di forze ostili, di minacce e soprattutto di rischi; significa semplicemente il venir meno del tradizionale “interlocutore” contro il quale, ma anche insieme al quale, era stato edificato un sistema di sicurezza che, per risorse materiali e simboliche investite, non ha eguali nella storia.
Con la fine della guerra fredda e della sfida tra le due superpotenze, neppure la violenza bellica è, di per sé, diminuita. Semplicemente ha cambiato aspetto: da concentrata si è fatta diffusa, da totale si è fatta limitata, da virtuale si è fatta reale.
Con il passaggio da un ambiente critico, ma relativamente stabile, come era quello dell’epoca bipolare, ad un ambiente forse meno critico, ma certamente più instabile come quello attuale, la mission del sistema militare guadagna in ampiezza, ma perde in intensità. Guadagna in ampiezza nel senso che gli vengono attribuite nuove missioni, compito in passato di altre istituzioni (Polizia, Protezione Civile, organizzazioni internazionali umanitarie). Perde in intensità, nel senso che per far fronte a queste nuove missioni deve abbandonare, o perlomeno attenuare, alcuni aspetti della propria specificità militare.
Nati per  fronteggiare la minaccia esterna, reale o percepita che sia, i sistemi militari hanno dovuto registrare fondamentali cambiamenti nella natura di questa. Nel mondo bipolare la minaccia era ufficialmente definita (e dunque chiara e indiscutibile per tutti gli attori appartenenti ad un determinato schieramento), centralizzata, messa in atto da un sistema militare antagonista, ma speculare. Oggi, invece, il mondo multicentrico presenta minacce non definite una volta per tutte, decentrate, poste in essere da soggetti indefiniti per numero e natura. La complessità e la multiformità delle sfide,  si rispecchia nella complessità delle risposte.
Superato il concetto di una Difesa statica, è venuta prendendo forma e consistenza, in seno alle Nazioni Unite ed all’Alleanza Atlantica, una politica comune di sicurezza dinamica, proiettata al di fuori dei confini nazionali, nelle aree ove insorgano, all’interno di uno Stato o fra Stati, situazioni di crisi politica, sociale od economica suscettibili di spiralizzazione conflittuale e di estensione ai territori limitrofi, oppure in grado di incidere sugli interessi generali di sviluppo economico, di progresso sociale.
Si accentua la  asimmetricità dei contendenti. L’ambiente operativo tende sempre più ad estendersi, ad includere nuove dimensioni di confronto e ad assumere caratteri di spiccata non linearità. L’ambiente operativo va inoltre progressivamente urbanizzandosi.
Più complesse e dinamiche divengono le interconnessioni e le sovrapposizioni tra i livelli tattico, operativo e strategico alimentate dai condizionamenti derivanti dall’opinione pubblica e dalla politica, anche con riferimento alla salvaguardia dell’ambiente naturale ed alla possibile esplosione della dimensione umanitaria della conflittualità.
Si afferma la tendenza alla gestione preventiva e remota delle crisi, con l’impiego di formazioni multinazionali ed interforze di entità relativamente limitata al di fuori dei confini nazionali.
Il fenomeno degli interventi umanitari è divenuto particolarmente rilevante infatti a partire dagli anni Ottanta e, soprattutto, durante il successivo decennio. Nell’era bipolare obiettivo di tali interventi era essenzialmente quello di tentare di attenuare, semplificare e ove possibile risolvere le situazioni di crisi  acuta e di conflitto, interponendosi tra le parti con il loro espresso consenso. Oggi, l’intervento è innanzitutto dettato dalla volontà di ridurre le sofferenze dei civili e delle popolazioni coinvolte nel conflitto; l’azione mira piuttosto a garantire il rispetto dei diritti dell’uomo e delle minoranze, nonché il ristabilimento, al termine del conflitto, di condizioni atte, sia dal punto di vista economico, che politico,  e ad assicurare la coesistenza pacifica in paesi di solito sconvolti da situazioni di guerra civile.
Quando gli interventi economici e politici non sono stati più sufficienti ad arrestare o respingere eventuali tentativi di sopraffazione o di invasione territoriale, le Organizzazioni Internazionali hanno dovuto prendere in considerazione l’impiego di forze armate in attività comunemente note come Peace Support Operations (PSO).
 Gli anni Novanta, hanno portato prepotentemente alla ribalta un nuovo scenario di impiego per le forze armate italiane e non, chiamate a partecipare ad interventi sotto l’egida dell’ONU sia per operazioni di carattere umanitario, che per azioni armate vere e proprie per il mantenimento forzoso della pace. Parallelamente è emersa la tendenza a far operare le forze di ciascun paese lontano dalla madrepatria, per evitare il coinvolgimento diretto nelle questioni all’origine della crisi.
Qualche anno fa, il segretario generale dell’ONU Boutros Ghali, per non contravvenire al dettato della Carta, ogni volta che si poneva la necessità di ricorrere alla forza per far rispettare le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, coniò le eufemistiche locuzioni: Operazioni Militari Diverse dalla Guerra (MOOTW) e operazioni a sostegno della pace (PSO).
Con il termine <<operazioni di supporto alla pace>> possono definirsi, in senso lato, quelle operazioni comportanti l’impiego di personale militare da parte di un’organizzazione internazionale, al fine di mantenere o ristabilire la pace in aree di conflitto e comportanti una presenza fisica sul campo.  Si tratta di operazioni sviluppatesi notevolmente dopo la fine della guerra fredda, in cui le forze militari svolgono compiti diversi da quelli di combattimento ed in cui l’impiego della forza è limitato certe volte alla sola autodifesa passiva, in cui spesso, non esiste un avversario designato da sconfiggere sul campo per obbligarlo ad accettare le condizioni di pace che gli si vogliono imporre.
Oggi, in campo internazionale, per indicare tutta la gamma di operazioni scaturite dall’evoluzione del peace-keeping, si tende ad impiegare il termine Peace Support Operations. Tale concetto è parte della più ampia categoria delle Military Operations Other Than War (MOOTW). Le MOOTW comprendono tutte le attività svolte da formazioni militari terrestri, navali ed aeree che non siano operazioni belliche. La tendenza è dunque quella di omologare il mantenimento della pace a una forma di conflitto a bassa intensità, anziché definirlo come una missione distinta oppure unica. Si tratta, quindi, essenzialmente di operazioni di supporto alla pace, di operazioni di assistenza umanitaria, di operazioni di cooperazione alle attività civili; in altre parole le operazioni MOOTW possono definirsi come quelle operazioni militari a bassa intensità di violenza o “diverse dalla guerra”.
 Le missioni di pace sono assai diverse fra loro, più di quanto non lo siano gli atti di guerra; occorre quindi tagliarle politicamente su misura dello scenario, delle difficoltà e dei rischi di ogni specifica operazione, nonché degli obiettivi politici di breve, medio e lungo termine.
Le operazioni di pace comprendono un vasto “spettro” di missioni, le cui linee di confine sono molto sfumate. Il livello di intensità nell’uso della forza va dal minimo dell’aiuto umanitario, ai valori intermedi del peace-keeping, fino al massimo del peace-enforcement, funzionalmente poco distinguibile da una vera e propria campagna di guerra.
L’Agenda per la Pace del 1992 emanata del Segretario Generale delle Nazioni Unite Boutros Ghali è un documento che organizza sistematicamente le varie fasi del mantenimento della pace,comprendendo una  categorizzazione degli interventi che possono essere così classificati:
Missioni di aiuto umanitario (Humanitarian Aids) : Sono considerate tali, le operazioni di minore intensità, condotte allo scopo di alleviare le sofferenze umane, specialmente laddove le Autorità   responsabili sono impossibilitate a provvedere , fornendo un adeguato supporto alle popolazioni.
 Tali tipi di operazioni prevedono essenzialmente tre tipi di attività:
§         l’aiuto umanitario;
§         l’assistenza ai rifugiati e profughi;
§         L’aiuto in caso di calamità;

Prevenzione dei conflitti (Conflict Prevention): Sono definite tali le operazioni svolte da personale civile e/o militare allo scopo di scongiurare l’avvio di una crisi e di evitare che dispute tra
fazioni/ nazioni si estendano o degenerino in conflitti armati.
Il compito dello strumento militare in questo caso è quello di fornire sostegno alle iniziative ed alle attività politiche e diplomatiche mediante l’impiego di forze che assolvono funzioni di allarme e di deterrenza attraverso una serie di missioni quali:
  • lo spiegamento preventivo;
  • la sorveglianza;
  • l’allarme preventivo;

Peace- Keeping operations: La natura “empirica” delle peace-keeping operations (letteralmente mantenimento della pace) caratterizzate dalla flessibilità dei compiti ad esse attribuiti in funzione delle esigenze del caso concreto, rende difficile una definizione formale delle stesse.
Il peace-keeping classico, o come si usa definirlo, di prima generazione, è regolato da cinque principi fondamentali:
- la manifestazione di  un consenso esplicito all’intervento, ad opera di tutte le parti coinvolte nel     conflitto;
- la rinuncia all’uso della forza, se non per autodifesa, da parte delle forze impegnate nell’intervento;
- la rigorosa neutralità delle unità e degli osservatori internazionali schierati sul terreno;
- la costituzione di contingenti d’interposizione con l’impiego delle forze messe volontariamente a disposizione da paesi piccoli o neutrali;
-  il controllo diretto sulla preparazione e la condotta di tutte le operazioni da parte del Segretario Generale delle Nazioni Unite.
In particolare le attività di  peace-keeping si concretizzano in :
§         missioni di interposizione fra le parti:
§         assistenza durante la fase di transizione;
§         controllo degli armamenti;
Nella nozione tradizionale di peace-keeping, gli elementi essenziali cui si fa riferimento, sono quelli del consenso tra le parti, dell’imparzialità e dell’indipendenza, nonché della dotazione di armamenti leggeri utilizzabili solo per scopi di legittima difesa.
Le forze devono privilegiare la protezione passiva al fine di contenere il rischio. In sostanza, il rischio militare deve essere fronteggiato con un livello minimo di risposta, ma con immediatezza ed efficacia.
L’obiettivo delle forze di pace, infatti, non è, a differenza di quanto avviene per le forze impegnate in guerra, la vittoria. L’obiettivo delle forze di P.K non è “risolvere” il conflitto, quanto  “stabilire” le condizioni grazie alle quali i conflitti possano essere risolti con mezzi non violenti. Questa radicale diversità si spiega con le differenze che contraddistinguono la situazione bellica e la situazione di mantenimento della pace, relativamente agli attori e all’ambiente dell’uno e dell’altra. Nella situazione bellica, la controparte è, come ovvio, il nemico. Nella situazione di peace-keeping la controparte è costituita da stati o fazioni in lotta fra loro. Popolato da attori l’uno contro l’altro armati, l’ambiente, pur altamente turbolento, non è univocamente ostile come nella classica situazione di guerra. Nel peace-keeping, infatti, si registra un ampio ventaglio di situazioni che può svilupparsi dall’ostilità armata,  alla cooperazione, passando per la neutralità più o meno benevola.

Peace-making:  Questa categoria di operazioni vengono definite letteralmente come operazioni di pacificazione, e costituiscono uno step successivo alle operazioni di peace-keeping, in quanto intervengono in una situazione di conflitto ormai irreversibile, ponendosi obiettivi a lungo termine per giungere alle radici dello scontro, nel tentativo di trovarvi soluzioni politiche, e stabilire una tregua o giungere ad un equilibrio di pace. Il peace-making è composto da un insieme di attività nelle quali sono presenti iniziative diplomatiche e di mediazione per convincere le parti coinvolte, senza ricorrere a misure coercitive, a raggiungere una forma di accordo.




Peace-building:
Il consolidamento della pace comprende tutte le azioni che supportano le misure politiche, economiche, sociali e militari, nonché le strutture aventi il fine di rafforzare e consolidare gli accordi politici che mirano a neutralizzare il conflitto.
Rientrano nel peace-building infatti, tutte le attività che mirano ad incoraggiare la ricomposizione politica di un conflitto e consentono la ripresa delle condizioni di vita ordinaria comprendendo programmi di aiuto e ricostruzione economica, sociale, sanitaria, soprattutto nella fase successiva alla cessazione delle operazioni militari.

Peace-enforcement: Vengono definite tali, le operazioni condotte da Forze militari, anche senza il consenso di tutte le parti in conflitto,  allo scopo di imporre la pace in un’area interessata da un conflitto dopo il fallimento di altre operazioni di pace, oppure “ab initio”. Il peace-enforcement è l’intervento che implica l’uso della forza militare vera e propria, nella misura e nel modo voluti, con un’intensità “medio-alta”, per assolvere al compito. Nel caso di peace-enforcement operations, la situazione è molto simile infatti a quella della guerra classica, caratterizzata da elevata conflittualità e  da un alto livello di intensità operativa.

Operazioni di prima generazione:
 Dopo il crollo del Muro di Berlino siamo abituati a distinguere gli interventi delle Nazioni Unite nel settore del mantenimento della pace, in interventi della “prima”, “seconda” e “terza generazione”. Nel primo trentacinquennio di attività delle Nazioni Unite, dal 1945 al 1980, si aggirano intorno alla quindicina le missioni comportanti la presenza sul campo di un contingente dell’ONU, per lo più in Asia e in particolare in Medio Oriente. Questo è il periodo definito come “operazioni di prima generazione”, in cui le operazioni erano a bassa intensità, in un ambiente relativamente stabile e statico e, che, si attuavano mediante azioni programmate centralmente dai comandi nazionali e dai vertici politici.

Operazioni di seconda generazione: Le operazioni di seconda generazione sono definibili come operazioni delle Nazioni Unite, autorizzate da organi politici o dal Segretario Generale, che hanno il compito di sorvegliare o di portare a compimento la soluzione politica di un conflitto interstatuale o interno, con il consenso delle parti. E’ chiaramente questo, un passo in avanti molto importante, in quanto lo scopo delle operazioni è qui volto ad ottenere una pace non provvisoria, attraverso strumenti che sono soprattutto di natura politica, ma che possono diventare, in certe circostanze, anche di natura esclusivamente militare (peace enforcement), questa volta, ovviamente, senza il consenso delle parti interessate.
Le operazioni di seconda generazione, nel quadro delle misure volte al controllo e alla gestione delle crisi, sono caratterizzate da una presenza militare rinforzata, opportunamente addestrata ed equipaggiata ed in grado di rispondere efficacemente alla transizione da un tipo di missione ad un’altra, visto che determinate operazioni, nate con certe caratteristiche ed obiettivi, possono evolversi in qualcosa di diverso a causa del mancato consenso di una delle parti, della pluralità delle fazioni in conflitto e della presenza di forze irregolari.

Operazioni di terza generazione: Ormai, sempre più spesso, si assiste all’affiancamento o alla sostituzione delle operazioni di peace-keeping  classico, quelle denominate di prima generazione, da parte di operazioni cosiddette di seconda o terza generazione. L’inizio di questa nuova fase si fa coincidere  essenzialmente con il 1989, quando nelle missioni di pace la componente civile e le attività da essa svolte acquistano un peso praticamente equivalente, se non preponderante, rispetto alle attività di carattere militare. Ormai la gran parte delle guerre non sono  più combattute tra stati, né da personale militare distinto e facilmente distinguibile dalla popolazione civile, né, tantomeno, per il perseguimento dei tradizionali fini della politica.
In questa prospettiva, l’intervento umanitario armato è una manifestazione particolare dell’affermarsi su scala globale del fenomeno del conflitto a “limitata intensità” (LIC, Limited Intensity Conflict) ovvero, un’operazione militare diversa dalla guerra tradizionalmente intesa.
Il peace-keeping della terza generazione  abbraccia quegli interventi militari che, designati con il termine di OOTW (Operations Other Than War, cioè operazioni diverse dalla guerra), prevedono l’eventuale uso della forza militare, al di là del limite tradizionale della legittima difesa, per realizzare l’obiettivo stabilito.
Queste operazioni sono concepite come un “continuum” delle operazioni precedenti, qualora queste non siano riuscite a perseguire gli obiettivi preposti, a causa della loro inadeguatezza originaria o per il sorgere di circostanze non esattamente prevedibili all’atto della formulazione del mandato. 
Esempi di operazioni di terza generazione possono essere considerati la seconda missione in Somalia, quella in Bosnia-Erzegovina e in Croazia, la guerra del Golfo del 1991 e le ultime due operazioni   “Antica Babilonia” in Iraq ed “Enduring Freedom” in Afghanistan, dirette a contrastare e combattere il terrorismo internazionale. 
In conclusione la complessità e spesso la sovrapposizione delle esigenze da soddisfare e dei compiti da eseguire, l’ottica non sempre coincidente delle differenti organizzazioni che svolgono le attività a sostegno della pace, la necessità di riferirsi ad un quadro di riferimento il più ampio possibile, di non provocare malintesi e di non ingenerare confusioni suggerirebbero che, al di fuori delle semplificazioni terminologiche, nella realtà attuale ben difficilmente un’operazione può già nascere con l’etichetta delle caratteristiche che dovrà avere. Conseguentemente, sarà difficile definire un’operazione di pace secondo un unico profilo.  Per il mondo occidentale, la guerra intesa come atto di forza che ha lo scopo di costringere l’avversario a sottomettersi alla propria volontà, viene ridimensionata ed inserita in un contesto più ampio, che comprende altre misure alternative, quali l’embargo commerciale, per esempio, o risoluzioni internazionali volte alla ricerca di una soluzione possibilmente pacifica. Da una concezione della forza come last resort ,strettamente collegata con la possibilità dell’impiego massiccio e risolutivo di una forza qualitativamente e quantitativamente in grado di conseguire la vittoria totale, occorre passare ad una concezione della forza in being, intesa, cioè, quale strumento organico della diplomazia.
All’interno del novo ordine mondiale la pace è vista non solo come assenza di conflitti internazionali, ma anche come rispetto dei diritti umani, rispetto delle minoranze, assenza di guerre fratricide. Talvolta, quindi, né la deterrenza militare, né le sanzioni economiche o politiche possono avere gran peso. Aumentano potenzialmente il numero di guerre per le quali l’unico obiettivo è quello di una loro restrizione, al fine di evitare processi di spiralizzazione.
In tale contesto si colloca la missione di pace, che rappresenta un “ponte ideologico” tra due modi differenti di considerare la guerra e la società.

                                                          Bibliografia

Luciano Bozzo, Guerre umanitarie tra retorica e realtà, <<Rivista Aeronautica>>, n° 4/2000;
Carlo Jean, Guerra, Strategia e Sicurezza, Bari, Laterza, 2001;
Antonio Pelliccia, Operazioni Militari Diverse dalla Guerra, <<Rivista Aeronautica>>, n° 1/2002;
Gen. Jean, Prof. Ronzitti, Il mantenimento della pace, Centro Alti Studi per la Difesa, 2° Corso Superiore di S.M Interforze, Anno Accademico, 1995-1996;
Giorgio Blais, Le operazioni di pace, << Rivista Aeronautica>>, n° 4/1999, p.17;
Boutros Ghali, “An Agenda for Peace” 17 giugno 1992, http://www. UN. Org/Docs/SG/agpeace.html;
SMD-G-015 “Manuale Interforze per le Operazioni di Pace”,  Roma, Stato Maggiore Difesa, gennaio, 1994;
C.F Renato Scarfi, Le operazioni di pace  nel nuovo ordine mondiale, <<Informazioni della Difesa>> n° 2/1997;
Giovanni Cellamare, Le operazioni di peace-keeping multifunzionali, Giappichelli Editore, Torino, 1999;
Fabrizio Battistelli, Il peace-keeping, nuova frontiera del militare, tratto dal volume  Soldati, sociologia dei militari italiani nell’era del peace-keeping, Franco Angeli, Milano, 1995;
Luigi Caligaris,  Le operazioni di pace: il ruolo della UEO e della NATO, tratto dal volume, Dal Futurismo al Minimalismo, ( a cura di) Luciano Bozzo, Napoli, ESI, 1999, p. 196;
Le possibili forme di intervento internazionale: peace-keeping, peace-building, peace-enforcing, peace-making, Tavola Rotonda, Centro Alti Studi per la Difesa, Roma, Palazzo Salviati, 19 gennaio 1994;
Carlo Jean, Guerra, strategia e sicurezza, Laterza, Bari, 2001;
Umberto Gori, I  mutati equilibri internazionali  e le operazioni di peace-keeping/enforcement, tratto dal volume “Dal Futurismo al Minimalismo”, ( a cura di) Luciano Bozzo, Napoli, ESI, 1999.

 per informazioni: risorgimento23@libero.it

Integrazione e globalizzazione nel mondo islamico? Un nuovo assetto geo-politico.


Giole Barcellona

I legami dell’islam[2] con l’Europa sono antichi. Se quelli conflittuali spaziano dalle crociate  ai tentativi di incursione musulmana conclusisi con l’assedio di Vienna nel 1622, si è avuta anche una presenza stabile dell’islam sia nella Spagna andalusa fino al 1492 che in Sicilia e nei Balcani. Il conflitto recente nella Bosnia-Erzegovina ha resuscitato nella memoria collettiva l’esistenza di un islam dimenticato nel cuore d’Europa. La caduta del muro di Berlino ha contribuito a far riemergere altri mondi musulmani rimossi, quelli dell’Albania e delle repubbliche islamiche dell’ex URSS. E ancora troppo prestò per valutare che tipo di islam emergerà da questa nuova situazione geopolitica, anche se vari indicatori vanno nel senso della radicalizzazione delle forme identitarie . Come affermava alcuni anni fa l’orientalista Jacques Berque, la situazione che si è venuta a creare a partire dagli anni Ottanta è la nascita di un Islam europeo, vale a dire di un islam che vuole identificarsi geograficamente con l’ Europa, frutto di flussi migratori e di immigrati della seconda o terza generazione , che hanno ottenuto per diritto o per naturalizzazione la cittadinanza di un paese europeo. Questa situazione si è venuta a creare mentre lo spazio economico e politico europeo si andava consolidando. Il progetto di una maggiore omogeneità su piano legislativo e politico ha fatto emergere la diversità di  trattamento giuridico delle comunità islamiche nei diversi paesi dell’Unione Europea: finora ciascuno dei paesi membri cerca di formulare una risposta a questi nuovi interrogativi secondo la propria tradizione giuridica, le proprie dottrine politiche, la propria percezione del fenomeno religioso.



Il problema dell’inserimento dell’islam nel quadro europeo sfocia in numerose problematiche, come ad esempio la futura cittadinanza europea e le sue condizioni di accesso, il rapporto fra cultura, religione e diritto, e infine il tipo di relazioni che andrà instaurandosi fra 1’islam europeo e l’islam del dar al-islam. Queste nuove comunità musulmane, nate in Europa, entreranno in conflitto con la cultura islamica d’origine o saranno fattore di equilibrio fra Nord e Sud del Mediterraneo.
Non va inoltre sottovalutato il problema dell’organizzazione strutturale di queste comunità. Il recente tentativo di creare a Parigi un organismo sotto forma di concistorio di musulmani rappresentativi dell’islam in Francia va in questo senso.
Dal punto di vista politico, le due filosofie che si intravvedono in Europa riguardo l’inserimento dell’islam nella comunità riflettono le differenti filosofie politico-sociali dei diversi stati: si passa dl comunitarismo di tipo anglosassone a un’integrazione alla francese .
Esistono anche divergenze entro le stesse comunità islamiche riguardo alla strutturazione di una propria rappresentanza; tali divergenze si riscontrano anche in Italia, sebbene fra tutte la situazione italiana sia la più recente. La nascita di organismi e strutture comunitarie islamiche si inserisce nell’attuale dibattito fra la crescita numerica della comunità e la sua richiesta di un’intesa con lo stato italiano Le diverse comunità mussulmane in Italia, come quelle di molti altri paesi, sono caratterizzate da un’accentuata frammentazione. Si ritrova qui la problematica di partenza: l’assenza di una «chiesa» nell’islam, e dunque la difficoltà per lo stato e le istituzioni di trovare un interlocutore al di sopra delle parti.
Le situazioni sono troppo recenti per formulare delle conclusioni, e l’islam in Europa risente delle dinamiche e dei conflitti che attraversano gran parte del mondo musulmano. In questi ultimi vent’anni si è assistito a un crescendo della problematica de1l’islam sotto molteplici aspetti. Che sia nell’opinione pubblica o nel vasto campo delle scienze sociali, l’islam è scrutato, analizzato, classificato. Le polemiche hanno assunto talvolta toni violenti, come ad esempio nel dibattito suscitato dal saggista Edward Said col suo famoso saggio sull’orientalismo, del 1978. Le polemiche non si sono ancora sopite; di recente lo stesso autore ha pubblicato un saggio su Culture and Imperialism, innescando una nuova polemica, questa volta con Ernest Gellner. Questi[3] episodi danno la misura della difficoltà di trovare un linguaggio, dei quadri di riferimento concettuali in grado di chiarire ciò che sta avvenendo. D’altra parte, l’enfatizzazione dei discorsi apologetici dell’islam contemporaneo fa sottovalutare i lavori di studiosi come Mohammed Arkoun e Muhammad ‘Abd al-Gabri, che non esitano a parlare di crisi della ragione islamica (Arkoun) o di critica della ragione araba (‘Abd al-Gabri). In ogni caso, come suggerisce Mohammed Arkoun, il dibattito sull’islam va inserito in uno molto più ampio e dunque molto più complesso. Di qui, l’obbligatorietà di un discorso interdisciplinare nell’affrontare le dinamiche in corso nel mondo musulmano. Si pensa spesso che gli anni Novanta abbiano definitivamente sancito la fine delle ideologie politiche; la soggettività derivata dall’utopia insieme alla dimensione sociale del collettivo da un lato e, dall’altro, il ritorno del religioso. Vanno in questo senso le numerosissime pubblicazioni uscite sul mercato editoriale in questi ultimi cinque anni: che si tratti di Francis Fukuyama con The End of History, o di Gilles Kepel con La revanche de Dieu, questi saggi sono l’eco di un mutamento nella società contemporanea. Mutamento che di fatto è legato ai cambiamenti geopolitici, economici e culturali che si sono prodotti nella sfera del religioso attraverso ciò che la sociologia chiama reinvestimento nel sacro. Ora, non è tanto sulla religiosità e sulle pratiche sociali derivate che oggi bisogna interrogarsi, ma sulla valenza stessa del sacro in quanto codice simbolico, codice che ci sembra irradiare nuove spinte collettive in altrettante forme di aggregazione sociale, etnica, religiosa o politica. Le società islamiche nel nostro caso sono un insieme interessante per l’osservazione di questi fenomeni, di questo cosiddetto ritorno del religioso. Ciò che si vuole ottenere nelle dinamiche odierne attraverso il linguaggio religioso non è tanto il ritorno ad una società tradizionale, peraltro già definitivamente scomparsa ad opera della modernità, quanto la comparsa di un nuovo tipo di individualità, il cui agire in conformità ad una tradizione spesso mitizzata non fa che tradurre la sua interazione fra una modernità per molti aspetti devastante e la sua nuova soggettività. E un paradosso apparente[4], ma il radicalismo che attraversa oggi gran parte delle società musulmane è il risultato di un processo di modernizzazione che da più di trent’anni ha modificato completamente la geografia sociale, l’antropologia, la morfologia urbana e rurale di queste società. La realtà odierna delle grandi periferie urbane del Maghreb o del Machreq fino al Sud-est asiatico, come la standardizzazione dei consumi e l’omologazione dei comportamenti sociali, soppiantano lentamente ma inesorabilmente le antiche medine del mondo musulmano e la gerarchia delle società tradizionali. Siamo in presenza di una specie di protosoggettività che agisce in una dialettica , che il filosofo Marcel Gauchet,  uno dei più acuti osservatori dei fenomeni contemporanei,  definisce nel suo saggio Il disincanto del mondo: Ci sono eccellenti ragioni perché gli uomini del dopo-religioso abbiano la tentazione di convertirsi, cosa che per essere interamente efficace richiede una conversione. Andata e ritorno, e compromesso zoppicante fra adesione e distanza, tra culto del problema e scelta della soluzione, che definisce la religiosità specifica dell’epoca  e forse anche il modo durevole di sopravvivenza del religioso in seno a un mondo senza religione. L’affermazione, insieme alla crescente radicalizzazione, di specificità culturali, parallelamente ad una mondializzazione che si propaga nei quattro angoli della terra, implica una crisi del soggetto; le nuove volontà di potenza cercano sempre discorsi di autofondazione in grado di legittimare nuove scelte, nuove interpretazioni politiche e religiose. Che sia il protonazionalismo o l’attuale tendenza verso ciò che alcuni studiosi chiamano l’islamo-nazionalismo , l’oscillazione è sempre la stessa, fra appartenenza identitaria (olismo) e autonomia individuale. La storia dell’islam di questo secolo è segnata da questi tentativi, che sono anche risposte a queste due sfide. Il tenore del dibattito si misura anche nelle interpretazioni e negli studi svolti dagli stessi autori musulmani. Tra un autore come ‘Ali ‘Abd al-Riziq, che pubblica nel 1925 un saggio subito condannato che gli vale l’espulsione dall’università di al-Azhar, Al-islam wa-usul al-hukm («L’islam e i fondamenti del potere») e l’esegesi coranica di Sayyid Qutb dai titolo Fi Zilàl al-Qur’àn («All’ombra del Corano») la distanza epistemologica è grande. In una recente intervista pubblicata nella rivista «M.A.R.S.», lo storico Abdallah Laroui rispondeva:
L’islam così ricco, così variegato per storia e cultura, che si è adattato a tante situazioni impreviste, non può vedere il suo destino dipendere da un solo e unico avvenimento così manifestamente puntuale nel tempo e circoscritto nello spazio. L’interazione fra modernità e conquista di nuovi spazi politici richiede innovazioni nel campo dell’analisi e comporta l’arricchimento delle nuove identità alla ricerca di spazi culturali tuttora da costruire.

L’islam contemporaneo fra contestazione e rinnovamento

Alla fine di questo secolo due elementi emergenti caratterizzano l’islam contemporaneo. Il primo, probabilmente  più ricco di conseguenze, è la nascita della immigrazione e della deterritorializzazione dell’islam tradizionale. Il secondo è la collocazione dell’islam della contestazione  nei confronti degli stessi stati islamici, arabi e non. Riguardo al primo elemento, si potrebbe ipotizzare che l’is1am, staccato dal suo contesto d’origine, sarebbe in grado di accelerare un processo che Olivier Roy ha chiamato di «aggiornamento teologico». Molti studiosi e musulmani riformisti lo pensano. anche se si tratta di un’ipotesi fra tante altre. Un aggiornamento teologico presuppone uno spazio in cui una riflessione possa essere attuata, e una società in grado di accogliere questo stesso aggiornamento. Per il momento in Europa tale spazio è inesistente, e non si possono mettere sullo stesso piano i corsi di studi in islamologia nelle università europee con i centri di formazione degli imam, vale a dire dei teologi musulmani, che nei paesi islamici sono formati dallo stato. La formazione in Europa degli imam è una questione aperta, e diversi tentativi in alcuni paesi europei hanno dimostrato il sussistere della dipendenza delle comunità musulmane dal paese d’origine. Si tratta di una situazione paradossale: se da una parte le comunità musulmane in Europa sono il risultato di una deterritorializzazione sociologica e storica, spesso i musulmani della seconda generazione sono cittadini europei, dall’altra la percezione de11’islam da parte delle istituzioni rimane incentrata sul ruolo guida della nazione d’origine. Si pone dunque il problema di una istituzionalizzazione dell’autonomia delle comunità musulmane in Europa. Porre tale questione significa accettare il fatto che l’is1am in Europa ha un tratto caratterizzante, fondamentale per poter immaginare i suoi sviluppi futuri: la sua caratteristica minoritaria. Il fatto[5] di rappresentare una minoranza, nonostante la crescita demografica dei musulmani in Europa sia esponenziale, ha un significato sociologico, perché implica che l’islam si debba collocare, come tutte le altre religioni, in funzione di una cultura che è comunque secolarizzata. L’is1am che si sta affermando in Europa è dunque il risultato di una frattura tra is1am e territorio. La comunità territoriale di partenza, che definiva il tradizionale dar al- islam , è assente, lo Stato non è più presente, non struttura più la comunità sul piano politico e religioso; e l’islam che ne deriva è orfano del suo territorio. Ciò spiega la difficoltà con cui in Europa gli stessi musulmani strutturano le proprie comunità: se lo stato d’origine è assente, manca il nesso fra l’assetto geografico e la sua rappresentazione politica. Certo, lo stato nel mondo islamico è recente, ma in ogni caso la territorializzazione del fenomeno religioso è stata fondamentale per lo svi1uppo politico de1l’islam. Infatti sotto la forma del califfato o del sultanato, l’islam si è identificato e strutturato attraverso il territorio, indipendentemente dalla sua estensione. La parola dar ha il significato di «casa» ma anche di «territorio», vale a dire del luogo in cui i musulmani, in assenza di una chiesa, si strutturano. Questo fenomeno spiega la complessità e le difficoltà giuridiche dei rapporto fra islam e stato in Europa Ciò avviene anche perché non può essere attribuito all’Europa il compito di strutturare i musulmani tra loro  di dare loro un’identità giuridica e Istituzionale, perché oggi l’Europa tratta il fenomeno religioso attraverso il prisma di secoli di trasformazione culturale, sociale e politica. E proprio quella fase del disincanto, descritta mirabilmente da Marcel Gauchet, che fa sì che l’universo religioso in Europa non appaia più come la componente fondamentale dell’identità europea. Il tratto minoritario appare dunque come una situazione sociologica nuova che, per le prossime generazioni, implicherà una nuova funzione dell’islam, poiché, per necessità di sopravvivenza, esso dovrà adattarsi alla natura dello Stato in Europa. Dunque dovrà privilegiare le vie che permettono la sua stessa esistenza, e la parità nei confronti delle altre religioni. La parità di trattamento giuridico con le altre religioni implicherà alla fine le stesse modalità di comportamento e di collocazione nei confronti dello Stato.
L’islam in Europa interagisce con una società atomizzata, e dunque marcatamente individualista; una società in cui anche il fatto religioso è un fatto individuale, non comunitario, sebbene di tanto in tanto echi di solidarismo riemergano alla superficie, anche se si tratta di un solidarismo che si esprime attraverso i singoli individui. Si può ipotizzare dunque che nei prossimi vent’anni si prospetti per i musulmani una religiosità più incentrata sull’individuo che sulla società, come dimostrano recenti ricerche sociologiche condotte tra i giovani musulmani nelle banlieues di Parigi e di Amsterdam. Si tratta ancora una volta di un paradosso, non immune da problematiche: l’individualismo nascente è un individualismo antropologico, sociale, non supportato da una riflessione teologica che, come abbiamo visto, è assente o bloccata. Si tratterà dunque di coniugare i cambiamenti sociali e strutturali che interessano i musulmani in Europa con nuovi assetti e spazi di riflessione in grado di accompagnare questi cambiamenti con il supporto di riflessioni teologiche, per impedire che si perpetui la serie di derive ideologiche del comunitarismo politico nell’islam. L’esempio [6]del conflitto nella ex Yugoslavia evidenzia proprio questo: non basta essere sociologicamente secolarizzati per evitare la contaminazione ideologica, perché quando le culture sono deboli per l’assenza di un’ermeneutica che accompagni questi cambiamenti, le identità possono divenire veri e propri demoni. Se la frammentazione delle comunità musulmane caratterizza oggi l’islam d’Europa, i cambiamenti sociali e culturali indotti da questa migrazione volontaria ci popolazioni musulmane si tradurranno in un islam incentrato più sull’individuo che sulla comunità. Questo spostamento sociologico implica il venir meno della costrizione giuridica nell’islam, proprio perché, essendo assente la comunità territoriale, il diritto non ha più la funzione di articolare territorio e comunità dei credenti: il dar al- islam è assente dall’orizzonte europeo, proprio perché quello che si sta sviluppando è un islam di tipo minoritario. L’articolazione dei musulmani fra di loro si svolgerà con altre modalità, in particolare attraverso un discorso di tipo escatologico-spirituale. Il diritto dunque non avrà più la funzione di produrre significato nel1’islam europeo, mentre la tendenza a una maggiore interiorizzazione di esso, e anche talvolta allo spiritualismo, compenserà il perduto legame sociale d’origine. Per rendersi conto di questo fenomeno, bisogna analizzare e costruire delle tipologie sui discorsi dei predicatori musulmani che oggi lavorano in Europa, soprattutto nell’ambito carcerario. Alcuni studi in proposito hanno sottolineato l’uso di elementi del discorso islamico focalizzati sulla riconversione e sul riscatto dal peccato, sintomi di una tendenza all’ individualizzazione.
Nell’islam europeo viene meno il nodo comunitario, mentre si profila una religione vissuta in modo individuale, certo solidalmente con gli altri musulmani, ma «decomunitarizzata» a causa dell’assenza di un’identità territoriale. Si tratta di un’ipotesi in prospettiva, tracciata individuando alcune tendenze attuali del1’islam in Europa e analizzando sociologicamente il fenomeno religioso, poiché le religioni mutano nel tempo, adattandosi alle condizioni dell’ambiente in cui esse si spostano.
Questa prospettiva però, sul piano del rapporto fra Stato e comunità religiose, presenta il rischio di una sconnessione fra le due parti, perché oggi la logica delle intese da parte dello Stato e delle istituzioni in Europa parte di una  visione dell’islam non inserito nella dinamica del cambiamento ma, ancora, in quanto comunità di tipo territoriale o politico. Quest’idea, che persiste un po’ ovunque in Europa, falsa il dibattito e la stessa percezione dell’islam. Nella filosofia politica dell’intesa, lo Stato continua a percepire l’interlocutore musulmano attraverso l’articolazione, quella dell’is1am delle origini, fra comunità dei credenti  e identità territoriale. Lo Stato non ha ancora assimilato il cambiamento in atto, il mutamento sociologico profondo che attraverserà l’islam europeo nei prossimi trent’anni. L’oscillazione costante, che ha caratterizzato l’islam del XX secolo, fra un islamismo che ideologizza la religione e un fondamentalismo o neofondamentalismo che l’ha di fatto ridotta a una serie di divieti, ha bloccato qualunque tipo di riflessione teologica o di interpretazione ermeneutica nell’islam. Due sono le conseguenze principali di questo fenomeno. Da una parte l’ipertrofia del diritto nell’islam ha implicato un suo allargamento alla sfera politica che si è tradotto dall’altra in una visione essenzialmente  politica delle funzioni del1’islam. I vari movimenti islamici di questo secolo, Fratellanza Musulmana, salafismo,  non sono che modalità politiche di definizione del significato della polis in quanto entità politica nell’islam. Le tendenze più laicizzanti, più liberai, come i movimenti riformisti negli anni Trenta in Egitto, ad esempio quello di ‘Abd al-Rziq,  sembrano delle aporie nella complessità del rapporto fra islam e società. Ciò che caratterizza l’islam contemporaneo è dunque il blocco della riflessione, un blocco epistemologico che ha condizionato il discorso dell’islam ufficiale. Ad esempio, nella stessa Turchia[7] laica, la Dyanet (Direzione degli affari religiosi) non ha paradossalmente nulla da invidiare, quanto a conservatorismo, all’università di al-Azhar al Cairo. L’origine di tutto ciò risiede probabilmente nella debolezza della società civile nel mondo musulmano, ma anche nel fatto che la ricerca di legittimità politica nei paesi musulmani si è accompagnata a un gioco perverso fra Stato e contestazione islamica: per non esserne superato, lo Stato si è spesso comportato come garante dell’islamita. Questo fenomeno ha comportato una conseguenza che lo studioso e giurista Francesco Castro ha chiamato la «shariatizzazione» del diritto: man mano che la legittimità politica si indeboliva a causa di fattori esterni e interni, lo Stato e le istituzioni rafforzavano la loro legittimità islamica introducendo norme shariatiche nelle altre fonti giuridiche dello Stato. Ad esempio in Egitto, nel 1980, dopo gli accordi di Camp David, il governo Sadat, per frenare la contestazione islamica, fece un emendamento costituzionale in cui si affermava che la shari’a era norma fondamentale dello Stato egiziano. Ciò non impedì l’assassinio di Sadat nel 1981 ad opera di un commando terrorista islamico. I mutamenti nell’islam contemporaneo sono osservabili sia nell’islam d’Europa,  la diaspora dell’islam , sia negli stessi Stati in cui l’islam per tradizione storico-politica ha assunto una legittimazione politica e istituzionale. Storicamente il fattore islamico, sia nella fase precedente la decolonizzazione che in quella dell’autonomia politica, ha costituito un elemento di aggregazione nello Stato formatosi in seguito all’eredità coloniale, ma anche un elemento di forte legittimazione simbolica della coesione e dell’idea nazionale nei paesi islamici. In molti casi lo stato nei paesi islamici è una creazione recente. Nel Medio Oriente (Machreq), gli accordi Sykes-Picot del 1916 diedero luogo alla costruzione degli Stati-nazione nei paesi arabi, sulle rovine dell’impero ottomano. Il Maghreb costituisce un caso diverso, a causa della sua costante ricerca di autonomia: il Marocco ne è un esempio illuminante. Generalmente, l’idea di nazione appare in una prospettiva islamica come uno dei paradigmi della modernità, perché essa ha destrutturato il vecchio mondo attraverso il processo di decolonizzazione o quello di occidentalizzazione (non tutti i paesi islamici sono stati colonizzati). Ma l’occidentalizzazione ha fatto sì che a un certo momento, per questa parte dell’umanità, la nazione divenisse il vettore portante della modernità politica tout co’urt: modernità politica non intesa in quanto autonomia del politico, ma in quanto riduzione delle differenze storiche fra popoli e nazioni.
A parte l’esempio turco, il nazionalismo nei paesi islamici non ha mai rimesso in causa la funzione dell’islam nell’arena politica. La questione dell’autonomia del politico è stata sempre occultata dal pensiero nazionalista. L’assenza di una separazione tra sfera pubblica e sfera privata nei paesi musulmani ha implicato il fatto che essi abbiano dovuto cercare altrove un’esperienza fondatrice della nazione. Ciò spiega anche perché, in assenza di un momento simbolico forte in cui l’idea di nazione potesse emergere, il nazionalismo nel mondo musulmano abbia utilizzato 1’islam come fattore strutturante l’idea stessa di nazione, e come supporto alla sua legittimità politica: basta considerare i simboli della nazione in questi paesi, il colore verde, la stella a cinque punte, la mezzaluna, e soprattutto la nascita di una tecnica politico-amministrativa del controllo dell’islam attraverso i ministeri degli affari religiosi. Nei paesi islamici del Sud-est asiatico ritroviamo le stesse dinamiche: un islam che è servito a rafforzare la legittimità dello Stato-nazione e una deriva di questo islam istituzionalizzato in una serie di movimenti contestatori, le cui strategie politiche variano da paese a paese. Secondo studi recenti, la società iraniana appare sempre più distante dai miti della rivoluzione iraniana, ma allo stesso tempo appare divisa fra una tendenza conservatrice e una più incline all’apertura verso l’Occidente; non viene però rimesso in causa il ruolo politico degli àyatollàh. La contestazione delle aree più liberali in Iran è incentrata essenzialmente sulla richiesta di una maggiore flessibilità riguardo alla funzione dell’ortodossia (l’obbligo della prassi religiosa) nella società. Le tendenze richiamate ci obbligano a costruire una classificazione in grado di determinare quale sia oggi il rapporto fra l’islam militante e lo Stato che si investe anche di una legittimità islamica. Un’analisi di questo tipo deve rendere conto della variabilità dei movimenti contestatori nell’islam, ma anche dell’intensità della loro opposizione allo Stato. Un dato di fatto inoppugnabile che accomuna le diverse situazioni è che ormai il gioco politico si svolge all’interno dei singoli Stati nazionali. L’interazione fra Stato e movimenti islamici dipende dalle strutture dello Stato, ma anche dal potere e dal raggio d’azione di questi movimenti, sia in ambito nazionale che in ambito regionale. Si possono dunque oggi distinguere, nell’interazione fra Stato e movimenti islamici , una serie di strategie diversificate tra loro. Questa [8]interazione fra Stato e contestazione islamica si traduce in un rapporto di forza tra le parti. A seconda del livello di intensità dei conflitti, si assiste a un gioco di polarizzazione ideologico e politico che può portare alla deriva terroristica e alla nascita di una situazione di tipo eversivo. Il caso più tipico di una forte intensità del conflitto è attualmente Algeri dove Stato e movimenti terroristici islamici si scontrano frontalmente. Questo scontro è caratterizzato da un monopolio pressoché totale della contestazione politica da parte dei militanti islamici, anche se alcuni segmenti di società, che operano attraverso movimenti associazionisti (donne, giornalisti) entrano in gioco in questo confronto fra Stato ed eversione. Altri paesi come l’Arabia Saudita si trovano in situazioni simili, anche se differenziate a seconda delle diverse condizioni socio-culturali. L’Arabia Saudita è un caso interessante perché fonda la sua legittimità su un forte simbolismo religioso essendo la dinastia saudita guardiana dei luoghi santi dell’islam , Mecca e Medina, una dottrina dello Stato basata su un puritanesimo religioso, il wahhabismo, e un sistema giuridico-istituzionale basato essenzialmente sul Corano e la tradizione profetica (Sunna). L’Arabia Saudita infatti non ha una costituzione, poiché essa è rappresentata dal Corano. Nonostante questa forte simbolica religiosa, la società saudita è attraversata da una contestazione islamica di tipo neoconservatore da parte delle stesse élite religiose che essa ha prodotto. Nel 1992 fu fatto circolare un manifesto, redatto da cinquanta teologi musulmani sauditi, che chiedevano un maggiore distacco dall’Occidente. I vari tentativi di catturare degli ostaggi all’interno dei luoghi santi del1’is1am dimostrano come il sistema possa essere superato da questa contestazione islamica. L’Egitto, a partire dalla metà degli anni Novanta, ha visto crescere la contestazione islamica, che cerca lo scontro frontale con lo Stato, mediante l’assassinio delle personalità politiche più in vista e gli attentati contro i simboli della presenza occidentale, come alberghi e turisti. Da[9] questo conflitto ad alta intensità fra militanti dell’is1am e Stato, derivano una prassi politica e una strategia. La strategia è basata sul tentativo di sradicare questi fenomeni, dunque sul ruolo della sicurezza e dell’ordine pubblico; ma questa politica dell’ordine pubblico, che in sé non è sufficiente a garantire l’equilibrio politico, reinveste nelle politiche di reislamizzazione, diverse a seconda del contesto socio-culturale in cui operano. Ad esempio in Algeria la politica di arabizzazione delle istituzioni pubbliche è il tipico esempio di simbolica che comporta un processo di reislamizzazione dall’alto. La strategia dello sradicamento del radicalismo islamico va di pari passo con il reinvestimento nella religione, e lo Stato tende a diventare un agente della reislamizzazione politica della società. La situazione di debole intensità del conflitto fra Stato e contestazione islamica si ha quando, per motivi strutturali e tradizione culturale, lo Stato non è l’unico elemento strutturante della società perché al suo interno permangono altre logiche, di tipo tribale o semplicemente confessionale E il caso della, in cui la contestazione islamica è di fatto diluita dalla frammentazione comunitaria; la caratteristica multiconfessionale dello Stato in Libano funge da freno a uno scontro frontale. Inoltre, la molteplicità delle appartenenze confessionali all’interno dell’islam, Sunniti, Sciiti, Drusi, Ismailiti, implica strategie diverse da parte di  questi movimenti contestatori. Infatti nello Yemen, Iraq e in Somalia , la spiccata frantumazione tribale e le difficoltà dello Stato a coagulare la realtà tribale indeboliscono l’impatto della contestazione islamica, anche se essa è fortemente radicata sul terreno. Una terza categoria può essere quella dei paesi in cui si è verificato l’ingresso della contestazione islamica nell’arena politica, e in particolare nel gioco politico all’interno dello Stato. È questo il caso della Giordania, dove la Fratellanza Musulmana, entrata in Parlamento negli anni Novanta, ha avuto una funzione di filtro tra ideologia contestatrice e movimenti eversivi. L’ingresso dei fondamentalisti «moderati» in Parlamento ha di fatto indebolito le tendenze più radicali presenti nella società giordana. Sembra che il Marocco segua la stessa logica politica: nelle ultime elezioni sono entrati nel Parlamento marocchino, all’interno della coalizione socialista, nove deputati islamisti. Ma questi due paesi, molto importanti nella valutazione delle tendenze politiche dell’islam contemporaneo, hanno delle caratteristiche precise: in ambedue il potere ha una legittimità estremamente forte, perché sia il re del Marocco sia il re di Giordania discendono dal profeta Muhammad. In loro dunque il potere politico è di fatto garante dell’equilibrio fra sacralità e dinamica dello Stato. Si può dire che di per sé la forte legittimazione sacrale funziona da punto d’equilibrio fra potere e autorità. In questo caso l’autorità modula il potere e non ha bisogno di reinvestire nel sacro. Ultimo caso, più complesso, è quello della Siria e della Turchia. Qui il gioco fra Stato e contestazione islamica ha implicato una strategia di espulsione totale della seconda; ma la società è attraversata da fenomeni di islamizzazione, che possono manifestarsi improvvisamente, come è avvenuto in Turchia negli anni Novanta. Lo Stato in questo caso interviene come garante di un limite non valicabile fra istituzioni e contestazione. Nel subcontinente indiano, in Pakistan e in genere nell’islam periferico, si possono osservare due fenomeni: la islamizzazione per il tramite di movimenti puritani  ad esempio il Tabligh in Pakistan o i diversi movimenti wahhabiti che attraversano l’Afghanistan e le repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale  e il processo di etnicizzazione della nazione, che implica il venir meno di una logica statale diluita in una realtà costituita da segmenti tribali e clanici. In questo caso prevale la logica dell’appartenenza tribale nei processi di reislamizzazione. Lo si nota in Asia centrale, ma anche in Afghanistan, dove l’etnia pasthum si fa agente di una reislamizzazione forzata. Queste logiche tribali, quando si fanno portatrici di uno stesso discorso sull’islam, rimettono in moto due grandi questioni che hanno sempre attraversato la formazione della classe politica nell’islam, vale a dire il rapporto fra la umma (comunità dei credenti, transetnica e transnazionale) e la ‘asabiyya (fratellanza di sangue). Figura emergente nel1’islam contemporaneo. il militante è l’indicatore di un mutamento totale delle società musulmane. Egli non è un personaggio che attraversa la storia per proiettarsi in una società tradizionale che non esiste più ma è il prodotto diretto di un condizionamento ideologico e della « sovramodernità» che connota oggi molti aspetti delle società contemporanee. Rifiutando l’Occidente, egli si fa vettore di ciò che rifiuta, non solo perché è l’Occidente che ha fornito al suo discorso ideologico il retroterra semantico, attraverso una definizione meramente politica dell’islam, ma anche perché il cambiamento che ha destrutturato le società musulmane oggi non conosce confini geografici; sotto l’effetto della globalizzazione, di una mondializzazione tecnologica, il discorso identitario nell’islam, nelle sue espressioni più radicali, è il risultato paradossale di questo processo, ancora in atto, di una deterritorializzazione della comunità, la umma. Oggi la umma non appare più come aggregazione di differenze etniche o nazionali nel discorso della contestazione islamica, ma sotto certi aspetti essa è universale, perché legata a una visione ideologica comune. Ciò che accomuna tutti i musulmani radicali è il fatto di definirsi come appartenenti a questa umma virtuale, a questa comunità di destino. La Bosnia, il Sudan, l’Afghanistan, la Palestina non sono dei segmenti storici e geografici ma sono elementi di una stessa messa in scena, l’islam oppresso ovunque sul pianeta. Questa visione paranoica della storia, peculiare dei gruppi eversivi e terroristici islamici, è praticamente simmetrica al terrorismo occidentale degli anni Settanta. Anche in quel caso il terrorista era un «viaggiatore», perché non definibile geograficamente e culturalmente. Questa[10] situazione è il risultato della sovra modernità: la comunità, essendo virtuale, rappresenta un non-luogo, uno spazio non più definito territorialmente. Secondo Marc Augé, i luoghi antropologici creano del sociale-organico, mentre i non-luoghi creano della «contrattualità solitaria». Va spiegato in questo senso il fatto che spesso negli attentati terroristici gli obiettivi prescelti siano proprio dei non-luoghi: stazioni, aeroporti, supermercati, strade, e raramente simboli religiosi: È forse anche a causa di questo, in un modo più o meno confuso, che coloro che rivendicano delle nuove socializzazioni e delle nuove localizzazioni non possono vedervi che la negazione del loro ideale. Il non-luogo è il contrario dell’utopia: esso esiste e non vi è in esso alcuna società organica. Ma proprio perché il radicalismo islamico è il risultato di questa trasformazione di una comunità definita culturalmente, etnicamente e geograficamente in una comunità astratta, la critica esacerbata dei radicalisti è indirizzata direttamente a tutto ciò che è organicamente definibile. Questo aspetto del radicalismo islamico definisce il passaggio dall’islam in quanto civiltà e prassi religiosa all’islam politico. Ci si potrebbe chiedere se questo ingresso del1’islam nell’arena politica, con i mutamenti che esso comporta, non implichi ciò che Marcel Gauchet ha definito l’uscita dell’islam dalla dimensione sacrale, in quello che potrebbe essere chiamato il tempo delle «religioni senza Dio». Il profondo mutamento nelle società musulmane può essere verificato nel binomio Stato-contestazione islamica, che fa intervenire una nuova dinamica sul piano sociale, con la nascita di elementi che si inscrivono nella prospettiva di future società civili: si tratta del processo di democratizzazione. Processo che non può essere analizzato sotto l’angolatura culturalista, ma deve essere decodificato attraverso le lente trasformazioni economiche e sociali. Tutto ciò avviene attraverso destrutturazioni e ricomposizioni dì società che interagiscono, volenti o no, con la globalizzazione.
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[1] Il primo articolo è apparso sul n. 3 del 2009. Cfr. G. Barcellona, Il Fondamentalismo e L’Islam contemporaneo.; Il secondo articolo è apparso sul n. 1 del 2011, G. Barcellona, Islam, politica e diritto islamico.
[2] Ivi,  p. 285
[3] Ivi, p. 287
[4] Ivi,  pp. 306-308
[5] Ivi,  pp. 316-320.
[6] Ivi,  p. 322.
[7] Ivi, p. 326
[8] Ivi, p. 330
[9] Ivi, p. 340
[10] Ivi, pp. 342-346

La situazione delle truppe tedesche in Italia



Giovanni Cecini
La guerra parallela dell’Italia fascista, divenuta in breve guerra subalterna della Germania nazista, mostra con particolare drammaticità il perenne e malcelato senso d’insofferenza e sospetto, che regnava tra i due alleati dell’Asse. Per questi motivi, al pari del clima di sfiducia regnante tra Vienna e Berlino a partire dal 1916 per via di una possibile richiesta austriaca di pace, questa volta nel bel mezzo del Secondo conflitto mondiale Roma veniva tenuta sotto osservazione dall’Alto comando germanico, dai funzionari e dagli agenti del servizi segreti nazisti in relazione a un possibile tradimento italiano.
Rispetto agli anni del massimo consenso, a seguito dell’entrata in guerra e dell’immediata serie di cocenti sconfitte, a partire dall’autunno del 1940 Mussolini si sentì franare la terra sotto ai piedi nel gioco dell’autorevolezza interna ed esterna. In tale logica va intesa quindi la preoccupazione che Hitler e i suoi generali iniziarono a nutrire nei confronti della sorte dell’imprudente Duce e del suo regime. Il Führer aveva una fiducia quasi cieca per il vecchio maestro, ma possibili disgrazie politiche, come una sollevazione popolare o il ripristino delle prerogative costituzionali da parte del re e imperatore, appoggiato dai sempre più insofferenti capi militari, rappresentavano una rischiosa incognita sulla prosecuzione dello sforzo bellico dell’Italia. Alle basi di questi forti timori vi erano non tanto quindi ragioni tattico-operative, vista la sostanziale inaffidabilità del contributo militare italiano, quanto motivazioni strategiche, considerato che uno sganciamento di Roma avrebbe pericolosamente aperto il fianco mediterraneo a una probabile e rapida avanzata continentale degli Anglo-americani.
Lo stesso Mussolini, consapevole che gli equilibri politici interni erano sempre sul punto di lacerarsi, in un frammisto di autocompatimento e desiderio di rivalsa continuò a chiedere con insistenza a Hitler truppe e materiali da poter impiegare sui fronti interessati dalle Regie Forze Armate. Durante l’incontro avvenuto ai primi di aprile del 1943 nel castello di Klessheim, presso Salisburgo, il Duce consigliò di giungere ad un armistizio con i sovietici per concentrare tutte le forze contro le democrazie occidentali. Il Führer non volle sentir ragioni, convinto che l’avamposto tunisino sarebbe stato un baluardo insormontabile, da dove l’Asse avrebbe riguadagnato tutti i territori perduti in Africa, tanto da risollevare le sorti della guerra.
Per tali motivazioni a partire da quel momento la presenza germanica nella Penisola crebbe a dismisura, paventando non tanto uno stanziamento difensivo di supporto alle operazioni oltremare, ma quasi una velata invasione preparatoria di una prossima occupazione vera e propria.
Infatti sin dalla primavera del 1943 l’Alto comando tedesco pianificò con precisione varie azioni, tutte rivolte a trovare il massimo vantaggio dal probabile mutamento di scenario diplomatico-militare. L’intervento più importante sarebbe stato la combinazione tra l’operazione “Alarico”, destinata a far affluire «in punta di piedi» una ventina di divisioni tedesche, e quella denominata “Asse”, rivolta a mettere fuori combattimento la timida Italia, catturarne gli uomini e i mezzi, occuparne i presidi e formare un nuovo governo fascista, epurato dei retaggi monarchici. Per il comando di tutta l’azione fu scelto il feldmaresciallo Erwin Rommel, che aveva dato ampia prova di ardimento e capacità innovativa e che per la sua storia personale, seppur comandante effettivo degli italiani in Tripolitania e in Cirenaica, nutriva nell’animo sfiducia e sospetto per le Regie Forze Armate.
Ecco perché all’indomani della caduta del fascismo, per nulla rassicurati dalle ambigue dichiarazioni del nuovo capo del Governo, il maresciallo Pietro Badoglio, i Tedeschi si trovarono preparati e pronti ad intervenire, qualsiasi sviluppo potesse profilarsi all’orizzonte.
Quando ancora la linea tra l’Asse e gli Alleati era rappresentata dal canale di Sicilia, venne predisposto l’invio di nove divisioni tedesche per quest’opera di contenimento; intervento aggiuntivo avvenne a partire dal 26 luglio 1943, quando attraversando le Alpi un’altra decina di divisioni venne trasferita dalla Francia meridionale, dalla Carinzia e dal Tirolo. Notevole importanza rivestirono le unità dislocate nella zona di Roma (circa 30 mila uomini), coordinate da una fitta rete informativa e politica, e da quelle operanti in Sardegna e in Corsica, predisposte a una decisa difesa costiera.
Berlino si trovò però nella situazione che alcuni generali di stanza in Italia, come il feldmaresciallo Albert Kesselring e il generale Enno von Rintelen, nonché l’ammiraglio Wilhelm Canaris, comandante dello spionaggio militare germanico, avevano una profonda simpatia e fiducia negli italiani, fattore che avrebbe impedito un’azione preventiva adeguata e efficace. Lo stesso Canaris, tra i promotori del successivo fallito attentato al dittatore austriaco del 20 luglio 1944, a latere dell’incontro dei primi di agosto a Venezia, espresse all’omologo generale Cesare Amé la sua approvazione per il cambio istituzionale, ma anche molta preoccupazione per gli inevitabili interventi che il Führer avrebbe prima o poi realizzato, per evitare che la situazione italiana gli sfuggisse di mano.
Per tutti questi motivi, anteponendo le ragioni politiche a quelle militari, Hitler nello scenario futuro della Penisola preferì assecondare il pessimismo dello stimato Rommel, piuttosto che l’eccentrico ottimismo di Kesselring, ritenuto per questo manovrabile dagli italiani. L’impostazione del Führer fu quella di far concentrare sull’Appennino settentrionale il Gruppo d’Armate “B” assegnate alla “Volpe del deserto”, che ebbe il suo comando prima in Baviera e poi sul lago di Garda, relegando Kesselring dalla sua sede operativa di Frascati a un’azione frenante nel Mezzogiorno, poco più che temporanea in vista della resa dei conti al nord. Azione primaria del piano sarebbe stata poi quella assegnata al fidato generale dei paracadutisti Kurt Student: l’occupazione preventiva di Roma con la messa a tacere del sovrano, dei vertici militari e del Vaticano.
Di fronte a un tradimento, la reazione germanica sarebbe stata quindi: il presidio armato di tutti i territori precedentemente difesi dagli Italiani e il disarmo o la cattura di questi ultimi, qualora non avessero espresso la loro chiara e fattiva intenzione di collaborare con la politica del Reich. Pur tuttavia una volta ottenuti questi successi, la linea da presidiare doveva essere arretrata tanto da mantenere il possesso della sola pianura Padana e dell’arco alpino, augurando di ottenere successo partendo dalla corta linea dei rifornimenti.
Sperando nel fanatismo di molti fascisti e pronta ad utilizzare l’inganno e l’intimidazione, Berlino creò ogni presupposto per recuperare ogni energia e risorsa alla causa dell’Asse. In effetti questo fu quel che avvenne, secondo un canovaccio già recitato, dove gli Italiani svolsero il ruolo di ipocriti infedeli e i Tedeschi quelli di insofferenti traditi e desiderosi di un’atroce vendetta.
In tutto ciò emerse una perfida approssimazione e un spirito malizioso delle istituzioni politiche e militari italiane. La defenestrazione di Mussolini avvenne secondo una procedura “regolare”, secondo i dettami elastici delle consuetudini costituzionali del Regno, e senza grossi contraccolpi nazionali. Non si può dire lo stesso della gestione diplomatica e militare del periodo successivo, che portò i Tedeschi ad avallare le proprie convinzioni che la caduta del fascismo avrebbe rappresentato la fine dell’inscindibile Patto d’acciaio. La commedia degli inganni, che intercorse tra governo Badoglio, comando Ambrosio e vertici germanici, evidenziò non solo la malafede esistente tra tutti i soggetti interessati, ma la cauta meticolosità di strategia dei tedeschi contrapposta alla politica disorganica delle istituzioni italiane, incapaci di pianificare in modo univoco i possibili ed eventuali sviluppi di una situazione così delicata e pericolosa.
La difesa della Sicilia, nel luglio del 1943, fu il banco di prova delle successive azioni tedesche, se finanche il territorio nazionale venne difeso dalle Forze Armate italiane con molto ardimento, ma prive di elementi e materiali sufficienti. In controtendenza invece le formazioni della Wehrmacht, sempre più cospicue e capillari nella Penisola, dimostrarono un’abilità e una fermezza nell’opposizione agli Alleati, tanto da riuscire, dopo la ritirata, almeno a far reimbarcare la quasi totalità dei reparti in una sorta di Dunkerque a parti inverse nello stretto di Messina.
In quella circostanza l’iniziale strategia di Kesselring, artefice di tutta quella che sarà la campagna difensiva d’Italia, partì proprio dalla convinzione che, nell’impossibilità di resistere a un’invasione su larga scala, la reazione contro gli Alleati doveva essere immediata, rivolta alla cacciata dei nemici direttamente sulle spiagge. L’operazione fallì, ma permise altresì ai Tedeschi di imparare una fondamentale lezione: cogliere la geografia dell’Italia e l’imminente confusione istituzionale italiana per avvantaggiarsi su una difesa elastica per tappe successive ad oltranza (simile per certi versi all’esperienza sovietica) del territorio della Penisola, anche avvantaggiandosi delle evidenti reticenze degli Anglo-americani ad azioni troppo azzardate e profonde. Infatti, trasferiti lo spregiudicato generale Patton e il fortunato generale Montgomery nella preparazione dell’invasione della Francia, gli Alleati in Italia erano privi di genialità creative, interessati solo ad operazioni militari accademiche e prevedibili.
Lo scontro dottrinario tra Rommel e Kesselring, già proposto per il contesto mediterraneo/nordafricano, si ripresentò anche sullo scacchiere italiano, tanto che quando arrivò il momento per Student di procedere all’operazione di liberazione di Mussolini sul Gran Sasso, all’indomani della dichiarazione di armistizio dell’8 settembre, Kesselring non venne neanche informato.
Secondo i convincimenti di Rommel, ancora scosso dalle disfatte nel deserto, l’Italia sarebbe stata difficile da difendere nella sua interezza, proponendo un’operazione di contenimento e di assestamento su ampia scala solo nell’Italia settentrionale. Kesselring espresse tutta la sua contrarietà a un’idea così pessimistica della campagna d’Italia, convinto invece di giocare d’astuzia. Proponeva quindi, come mossa migliore, di impegnare il nemico in una faticosa e difficile guerra di logoramento attraverso tutta la profondità del Paese. Infatti egli era contrario a un ripiegamento massiccio per creare una linea difensiva così arretrata, fronte troppo avanzato per il nemico e quindi funzionale a incursioni aeree massicce in territorio tedesco. A differenza delle ampie spianate desertiche del Nord Africa, lo Stivale era caratterizzato da un’aspra catena montuosa trasversale ma non rettilinea, difficile da valicare per gli Anglo-americani, la cui forza dominante dipendeva dalle truppe corazzate e motorizzate. Per di più tenere Roma il più possibile avrebbe garantito un pegno fondamentale sia in campo diplomatico che in quello operativo.
L’incognita di trovarsi in territorio straniero e per giunta in inferiorità numerica rispetto agli italiani “badogliani” non intimorì il comando di Frascati, che seppe rispondere con una pianificazione, una propaganda incisiva e una manovra ben collaudata allo sbandamento generale delle Regie Forza Armate capaci di eccelsi erosimi individuali, ma carenti perché in balia di vertici lontani o impreparati a colmare la lacuna istituzionale esistente.
La differenza di vedute tra i due feldmarescialli tedeschi, portò addirittura lo stesso Kesselring, senza tuttavia rinunciare al comando effettivo del settore a lui assegnato, a rassegnare a metà agosto del 1943 le dimissioni dal suo incarico, respinte in novembre da Hitler, che quindi si convinse della bontà del suo piano, concedendogli mano libera sull’intera Italia. Rommel, che fino ad allora aveva assistito – per ordine ricevuto – per la prima volta nella sua vita lontano dalle linee da semplice spettatore alla campagna d’Italia, venne destinato quindi al completamento del Vallo Atlantico sulla costa settentrionale francese in attesa dell’invasione dell’Europa dalla Manica.
Proprio questo antagonismo non facilitò le cose, se Kesselring, che aveva frenato con successo gli sbarchi a Salerno e l’avanzata in territorio campano, nel dopoguerra espresse tutto il suo disappunto sulla scelta di tenere troppe truppe di riserva nel centro-nord, invece di impegnarle subito sul fronte ancora elastico. Kesselring, secondo quel che esprimerà nelle sue memorie, aveva vinto la sfida al vertice, ma aveva perso mesi importanti, non potendo giovarsi del comando di tutti i reparti (circa 150.000 uomini), che dipendevano di massima da Rommel. Tuttavia, forte delle sue convinzioni partorite sul campo, si convinse a garantire al Führer una difesa adeguata per molti mesi della zona a sud di Roma, con relativo presidio della capitale dai possibili attacchi alleati.
L’azzardo di Kesselring venne premiato anche oltre i suoi meriti, proprio perché gli Alleati avevano sempre giudicato l’Italia, una volta indotta alla resa, un campo di battaglia periferico e finalizzato unicamente a togliere truppe nemiche da quello che sarebbe stato il fronte principale in Francia. Non volendo accordare fiducia alle osservazioni di Winston Churchill, che intravedeva nell’Adriatico il grimaldello per impossessarsi dei Balcani ai danni di Stalin, il generale Eisenhower, una volta presa la Sicilia, destinò nella Penisola un contingente limitato e senza troppe pretese, per giunta comandato da generali “da tavolino”, privi di un’avanzata esperienza sul campo e per questo poco avvezzi a manovre ardite.
L’armistizio dell’8 settembre, la reticenza degli Alleati a concedere troppo credito a Badoglio nello spingersi in sbarchi a nord di Roma e soprattutto un’assente predisposizione da parte dei vertici italiani di difesa della Capitale, facilitò la capitolazione della città, fornendo ai Tedeschi una rapida e promettente occupazione non solo del centro nevralgico del Paese, ma anche la possibilità di creare un valido bastione contro le ulteriori avanzate alleate. La difesa eroica degli ultimi reparti del Regio esercito furono travolti dagli ex alleati germanici, perché male organizzati e senza ordini precisi, subendo il completo massacro. Gli unici episodi in cui i Tedeschi furono indotti alla desistenza, furono i casi della Sardegna e della Corsica, dove però la reazione delle divisioni italiane, tra cui la Friuli e la Cremona, se fecero evacuare dopo aspri combattimenti gli uomini della Wehrmacht e delle SS dalle due isole, non intaccò nella sostanza la loro efficienza bellica.
Molto si è discusso, e ancora oggi è un argomento di ampio dibattito storico e morale, a proposito della “fuga” a Brindisi, della scelta di non difendere Roma, tuttavia si può serenamente parlare di diffusa e condivisa miopia politica e militare da parte della Corona, del Governo e dello Stato maggiore generale nell’aver messo in condizione le Forze armate italiane di doversi arrendere, perché inidonee e non preparate alla prevedibile reazione dei Tedeschi.
L’aver giocato poi la partita con gli Alleati in modo opportunista, sperando di farsi sberleffo di loro e tenersi buona una possibilità di doppio o triplo gioco, ha consentito ad Eisenhower di non spingersi oltre Salerno per uno sbarco, favorendo così automaticamente la strategia di Kesselring, che aveva tutto da guadagnare di fronte a quella sterile ragnatela di cospirazioni badogliane.
Lo sbarco nella città campana non fu fermato dai Tedeschi, che reagirono comunque bene, ma Kesselring predispose una serie di formazioni parallele tanto da smorzare gli effetti della penetrazione peninsulare degli Anglo-americani. Una volta assestate le truppe germaniche sulla linea Gustav, nel restringimento dello Stivale tra la foce del Garigliano e quella del Sangro, la resistenza fu accanita, tanto da rimanere granitica anche a seguito del timido sbarco ad Anzio nel gennaio del 1944. Il promontorio di Cassino da principio semplice presidio, dopo alcuni insensati bombardamenti divenne una roccaforte inespugnabile, tanto da divenire un vicolo cieco per gli Alleati in cammino sulla via Casilina. Anche sul fronte adriatico gli scontri non furono da meno, tanto da battezzare la battaglia avvenuta ad Ortona la “Stalingrado d’Italia”.
Roma venne presa dagli Americani solo in giugno, ma a caro prezzo, dopo sanguinosi e ripetuti attacchi, che le truppe tedesche ostacolarono colpo su colpo. Per di più l’azione di entrare in città si rivelò inutile sotto il lato prettamente strategico. Il generale Clark, esaltato dall’evento di cui era protagonista, non sfruttò il vantaggio accumulato per realizzare una proficua azione di aggiramento e infliggere un colpo mortale alle unità tedesche, che si trovavano a nord della Capitale, permettendo loro invece di organizzarsi e predisporre nuove sacche di resistenza sull’Appennino centrale.
Un anno era passato dallo sbarco in Sicilia, ma le divisioni germaniche mantenevano ancora il presidio di oltre metà della Penisola. Proprio per il protrarsi delle operazioni campali in ciascuna regione italiana la drammaticità del conflitto bellico iniziò a coinvolgere sempre di più la popolazione, sia per le incessanti azioni di combattimento del fronte in prossimità dei centri abitati, sia per la politica di sopraffazione e di vendetta operata dai Tedeschi sugli Italiani, indistintamente se militari combattenti, prigionieri o semplici civili. Gli eccidi più famosi sono solo l’epifania di un fenomeno diffuso e ampiamente utilizzato sia in funzione operativa, ma anche seguendo delle logiche disumane di vendetta e per nulla giustificabili sotto l’aspetto militare.
In questi frangenti tuttavia emerse anche l’occasione per una reazione italiana, non necessariamente scontata, vista la sostanziale assenza dello Stato nel periodo post armistiziale. Oltre alle formazione di resistenza ad opera dei partigiani, che in tutte le zone del centro-nord si andavano formando, anche in collaborazione con il servizio informazioni alleato, ebbe il battesimo del fuoco la prima formazione militare italiana post-fascista. Il 1° Raggruppamento motorizzato, seppur senza grandi consistenze di uomini e materiali, partecipò con valore agli scontri presso Mignano Montelungo, non lontano da Cassino, dando l’avvio alla ricostruzione delle Forze Armate italiane, seppur tra mille difficoltà frapposte dalle stesse autorità alleate, prima con il Corpo Italiano di Liberazione e poi con i sei Gruppi di Combattimento.
Una volta liberata Roma, il fronte italiano perse l’attenzione da parte di Londra, Washington e Berlino. Dall’estate del 1944 le cose cambiarono su entrambi gli schieramenti, concentrando gli sforzi sul fronte occidentale, apertesi le ostilità in Normandia appena due giorni dopo il sopraggiungere degli Alleati nella Capitale. Tuttavia gli scontri successivi in Italia non furono da meno dei precedenti, considerata la lentezza con la quale gli Anglo-americani procedettero lungo la Penisola. Le linee parallele di difesa, che i Tedeschi avevano delineato nella zona tra Napoli e Roma, proseguirono anche in Italia centrale, principalmente in prossimità del lago Trasimeno. Superata anche Firenze, un altro inverno arrivò e la linea Gotica, che ricalcava grosso modo parte del tracciato dell’operazione “Alarico”, permise alle unità germaniche di bloccare il nemico e di costringerlo a trincerarsi, anche a causa del clima rigido.
Dopo Montecassino ed Ortona, anche qui i Tedeschi mostrarono una grinta e una capacità di resistenza non comuni, per le quali gli Alleati ebbero la meglio solo per la copiosità dei mezzi a disposizione e per la crescente stanchezza che la Germania aveva accumulato dopo sei anni di guerra combattuta su tutti  fronti del continente europeo. L’aspetto militare dell’azione tedesca, se si considera che la campagna d’Italia durò circa due anni, fu un capolavoro di resistenza bellica, anche a fronte dell’iniziale propensione germanica a difendere solo il settentrione del Paese.
Altra faccenda ovviamente è l’aspetto morale e criminale dell’esperienza. Numerosi potrebbero essere gli episodi da elencare, in cui militari della Wehrmacht, della Gestapo o delle SS si sono macchiati in territorio italiano, evidenziando agli occhi di coloro che si occupano di storia militare come l’aspetto operativo e neutro di una guerra tra due eserciti contrapposti possa essere stravolto da accadimenti che esulano dai valori classici di onore e cavalleria o da quelli tecnici di strategia e tattica.
Per questi motivi numerosi dei protagonisti di tale campagna furono messi alla sbarra per l’emanazione di ordini criminali. Tra i tanti, che chi più chi meno pagarono almeno con una detenzione, spiccano lo stesso Kesselring, Herbert Kappler e Walter Reder. Sta di fatto che la posizione incerta avuta dall’Italia durante il conflitto, come pure il mancato procedimento nei confronti dei crimini di guerra commessi dagli Italiani in venti anni di guerre fasciste, hanno portato un’imbarazzante e onnicomprensiva coltre di oblio su ampia parte delle responsabilità dirette e indirette di molti eccidi commessi nel nostro Paese dalle autorità politiche e militari tedesche.
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