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venerdì 22 dicembre 2017

Difendersi dalla televisione

Difesa on line Redazione)15/12/17 

Nessun rilievo è stato mosso dal Collegio dei Questori
della presidenza della Camera al sottosegretario di Stato alla Difesa Domenico Rossi, oggetto nelle scorse settimane di alcuni servizi della trasmissione “Le Iene”. La questione riguardava l'assunzione del figlio dell’onorevole Rossi da parte del deputato Mario Caruso.

Come dichiarato dall’onorevole Roberto Capelli, membro dell’ufficio di presidenza della Camera, non è stata aperta neppure un’istruttoria sul sottosegretario Rossi, in quanto non era possibile muovere alcun rilievo nei suoi confronti: i rapporti tra il figlio di Rossi e l’onorevole Caruso erano stati regolati fin dal 2013 da un contratto del tutto legittimo, e i pagamenti erano stati fatti dallo stesso Caruso attraverso movimenti bancari sempre tracciabili, al contrario di quanto ipotizzato dalla trasmissione televisiva.


cfr Difesa on line.it/news forze armate/interforze/collegio dei questori- presidenza camera su vicenda sottosegretario rossi.

martedì 12 dicembre 2017

Alessia Biasiolo Contributi II

Hitler e “I Protocolli dei Savi di Sion”

Hitler e il gerarca nazista Goebbels nutrivano una forte ammirazione per il libro “I Protocolli dei Savi di Sion” tradotto in tedesco da Gottfried zur Beek nel 1919, così come per la raccolta di pamphlet “L’ebreo internazionale”, finanziata da Henry Ford e pubblicata tra il 1920 e il 1922, che sviluppava la tesi de “I Protocolli”. Il volume “I Protocolli dei Savi di Sion” aveva già tirato trenta edizioni quando, nel 1933, Hitler divenne cancelliere.
I “Protokoly Sionskich Mudretsov uscirono per la prima volta nel 1903 in Russia, ma già nel 1921, grazie ad articoli pubblicati sul “Times”, fu evidente che si trattasse di un falso storico, rielaborazione di satire politiche, romanzi, articoli che non sempre avevano come argomento o protagonisti gli ebrei. In modo particolare ci si rifaceva all’opera di Maurice Joly che, per attaccare la politica di Napoleone III nella Francia della seconda metà dell’Ottocento, scrisse un “Dialogo agli inferi tra Machiavelli e Montesquieu”, a sua volta ispirata ad un romanzo inglese di Eugène Sue intitolato “I misteri del popolo”. In quest’ultimo libro alla gogna veniva messa un’altra categoria di persone, spesso odiate o argomento di maldicenze, i gesuiti. Nulla, quindi, a che fare con gli ebrei, ma molto bene si prestava l’argomentazione per applicarla alla razza odiata nel Vecchio Continente a ondate più o meno frequenti. Di cospirazioni narrava anche Alexandre Dumas padre che, nell’opera “Giuseppe Balsamo”, fa organizzare da Cagliostro e i suoi uomini una cospirazione. Serpeggiava, quindi, l’idea di qualcuno o qualcosa (o entrambi) che cospirava o aveva intenzione di cospirare in Europa, per minare la solidità dell’impianto positivista e del benessere, diffondendo zizzania, malattie, problemi e morte. Contro l’Occidente cristiano manovrava un’entità segreta che poteva, nell’immaginario di ciascuno, essere diversa a seconda degli interessi, anche se la maggior parte dei lettori pensava agli ebrei come a chi poteva mettere in atto diavolerie simili. Sarà, infatti il “Libro del Kahal” a diffondere l’idea del complotto ebraico ordito per giungere a dominare il mondo; oppure la trilogia uscita a puntate su “Il Messaggero Russo” tra il 1881 e il 1890 dal titolo “L’ebreo sta avanzando”.
La struttura de “I Protocolli” si basa sui discorsi degli Anziani che spiegano come comportarsi per convincere i non ebrei, o goyim, della loro bontà mentre tramano per conquistare il mondo. Un argomento che si leggerà anche in testi nazisti, come quelli scritti per i bambini, espressamente per l’educazione scolastica a diventare “bravi nazisti” di cui il più famoso è “Der Giftpilz” o “Il fungo velenoso”, pubblicato nel 1938 in Germania da Der Stuermer-Verlag, dell’autore Philipp Rupprecht. Nel testo si leggono molti aneddoti o esempi che richiamano toni de “I Protocolli”, soprattutto relativi all’aspetto innocuo degli ebrei, se non addirittura simpatico e “normale”, ma in realtà erano avidi di denaro, sporchi e puzzolenti, con il naso adunco. La mania delle “narici troppo ebraiche” aveva portato Hitler a farsi crescere i baffi, per cercare di nasconderle o mascherarle.
L’aspetto fisico per i tedeschi nazisti, infatti, era fondamentale, dal momento che inneggiavano alla pura razza ariana, contaminata da altre razze, soprattutto quella ebraica che, secondo Hitler, aveva tramato proprio per avvelenare la razza tedesca, superiore e dominatrice. Era necessario pertanto prima di tutto eliminare gli ebrei dai territori tedeschi e poi ripulire il popolo tedesco, eliminando tutti coloro che non dimostravano di essere adatti ad appartenervi. Un altro argomento particolarmente pregnante, soprattutto nella Germania ripiombata nella crisi dopo il crollo della Borsa di New York del 1929, era economico: gli ebrei si insinuavano nella società europea, tedesca in particolar modo, attraverso la pratica dell’usura, nella quale erano maestri.
L’opera di propaganda antiebraica era stata ripresa in Russia dopo la rivoluzione dalla fazione bianca; la guerra civile che seguì il movimento rivoluzionario di febbraio e ottobre, infatti, si divise in armate rosse, bolsceviche, e armate bianche, formate dai menscevichi e dai bolscevichi moderati, che non vedevano di buon occhio la rivoluzione “tutto e subito”. Pertanto si riacutizzò l’ondata antiebraica e anche antisemita, nell’idea che la fazione ebraica avesse sobillato a favore della tragedia che si era impadronita dell’Europa in quella porzione di secolo, e in Russia in particolar modo riuscendovi. Se dapprima si vedeva il nemico ovunque, quasi lo spettro del male dovesse per forza lasciare l’amaro in bocca in un’epoca di splendore e di positività come quella che ricordiamo con il termine Belle Epoque, adesso il nemico era arrivato ad ottenere i propri scopi. E si nascondeva dietro le sembianze ebraiche e la massoneria, accusata a più riprese anche nel passato di essere anticristiana.
Come abbiamo scritto, non c’è niente di meglio che cercare la verità dove la si vuole trovare: tolse ogni dubbio sulla veridicità della cospirazione ebraica russa e massonica, e quindi su “I Protocolli”, l’imprigionamento da parte dei bolscevichi del traduttore della versione inglese del libro. L’uomo, Victor Marsden, venne imprigionato nella fortezza di San Pietro e Paolo in quanto corrispondente del “Morning Post”. Una volta rilasciato e tornato in Gran Bretagna, Marsden cominciò la traduzione della versione di Sergei Nilus, prete mistico che era diventato famoso non solo per la pubblicazione de “I Protocolli” alla fine della terza edizione di un suo libro, ma per averne modificato il testo non appena gli venne fatto notare che conteneva dei dati dubbi o impossibili. Nilus aveva identificato la Francia come la culla del complotto massonico e anche questo ebbe buona parte nel successo della diffusione del testo, dal momento che era vero che Francia e Gran Bretagna erano state e rimanevano alleate, ma gli inglesi soprattutto si prodigavano per contenere le mire economico-espansionistiche francesi. Il successo fu assoluto: in un anno vennero tirate su suolo britannico cinque edizioni del libro; lo stesso anno dell’edizione finanziata negli Stati Uniti da Ford. L’idea comune, anche in Henry Ford, era che il testo contenesse la predizione di ciò che stava realmente accadendo; ed era stato scritto oltre un decennio prima.
Tornando ad Hitler, cita “I Protocolli” nel suo “Mein Kampf”, mentre nella Germania nazista il libro divenne una lettura scolastica obbligatoria.
Lo stesso Alfred Rosenberg, importante ideologo del Partito nazista, aveva curato un’edizione del libro, nel 1923. “I Protocolli”, infatti, erano in grado di spiegare nel dettaglio il motivo di ogni problema tedesco, l’origine di ogni afflizione che era capitata alla nazione durante e dopo la prima guerra mondiale, fino alla catastrofica crisi del ’29. Sembrava che ogni aspetto della vita fosse trattato ne “I Protocolli”, dalla sconfitta bellica all’inflazione alla congiura ebraica che, finalmente, stava trovando riscontro nei fatti.
Alla fine, tanto fu il successo e il clamore de “I Protocolli”, che il nazista svizzero Zander, nel 1934, venne citato in giudizio a Berna a causa degli articoli che aveva pubblicato utilizzando “I Protocolli” come veri. Arrivati alla causa grazie a Dreyfus-Brodsky, Cohen e Ehrenpreis, citanti, nel 1935 la corte dichiarò definitivamente “I Protocolli dei Savi di Sion” falsi, osceni e plagio di altre opere, addirittura nocivi e ipotizzandoli tali anche per il futuro.
Al processo testimoniò anche Burcev, scopritore di agenti provocatori dell’Ochrana, la polizia segreta zarista, che nel 1938 pubblicherà un volume dal titolo “I Protocolli dei Savi di Sion: un falso provato”. Molti Paesi condannarono delle persone perché diffondevano “I Protocolli” pur sapendo che erano falsi e che era vietato.
Ancora oggi “I Protocolli” fanno discutere perché, se molti Paesi evitano di diffonderli, in molti altri vengono citati e trattati come veri.
Perché gli ebrei avrebbero dovuto impegnarsi in un’azione così folle e crudele? Qualcuno ha affermato che il progetto di dominare il mondo da parte degli ebrei, avesse origini antiche, dall’Antico Testamento al Talmud e che, con “I Protocolli” avessero raggiunto il modo di vendicarsi di tutte lo oppressioni subite in particolar modo per mano dei cristiani. La massoneria aveva il compito, alleata con gli ebrei, di controllare la massa incolta attraverso le proprie logge.
“I Protocolli”, quindi, non erano altro che i verbali degli incontri segreti che i Savi di Sion, gli ebrei più potenti, avevano organizzato a Basilea. Gli incontri avevano coinciso con il primo Congresso Sionista mondiale, promosso da Theodor Herzl che voleva diffondere tra gli ebrei l’idea di avere un Paese proprio, una nazione che li riunisse in Palestina. Al Congresso avevano partecipato molti esponenti non ebrei di molti Paesi del mondo e la storia suonava stonata già allora. La stesura del testo la si deve a Matvey Golovinsky, appunto un agente dell’Ochrana, che doveva cercare di aumentare nel popolo russo la convinzione che gli ebrei fossero, d’accordo con i massoni, personaggi di sinistra che volevano cospirare contro la Russia e le altre parti del mondo. In questo modo, il processo di democratizzazione in Russia sarebbe stato ulteriormente allontanato. Proprio nel 1905, ad esempio, lo zar cercò di mandare la propria gente in guerra per accontentarla nell’idea di avere terre e soldi, senza però cambiare nulla dell’organizzazione dell’immenso e arretrato territorio russo. Scoppiata la rivoluzione nel 1917, i fatti sembravano dare ragione ai falsi Protocolli, soprattutto perché lo stesso Trotsky, capo della fazione che poi si rivelerà contraria a quella di Lenin, era ebreo. E quindi tutto sembrava deporre a favore della veridicità delle predizioni, diffuse in Europa da coloro che fuggivano, per vario motivo, dalla Russia sconvolta dalla guerra civile. Forse perché gli esseri umani amano molto gli oroscopi e cercare di conoscere il futuro prima che questo si avveri: per alcuni, quindi, “I Protocolli” erano moderne Cassandre o King cinesi, anche se purtroppo con conseguenze non atte a migliorare la vita, bensì a provocare la morte di milioni di persone innocenti.

Comm. Alessia Biasiolo

Bibliografia essenziale
Adolf Hitler: “Mein Kampf”, Free Ebrei edizioni, 2017
Javier Alonso Lopez: “Il mito dei Protocolli dei Savi di Sion”, Storica, N.G., n. 105, 2017
Philipp Rupprecht: “Il fungo velenoso”, in Ceritto, Messineo: “Libriamoci”, Le Monnier


martedì 5 dicembre 2017

Alessia Biasiolo Contributi I

L’organizzazione della R.S.I.

I punti salienti sui quali la voce di Mussolini da Radio Monaco insiste annunciando la necessità della nascita della Repubblica Sociale Italiana (R.S.I.) sono vari. Innanzitutto il ritorno al fascismo delle origini, con la sua netta impronta sociale, che mette in chiaro la lealtà all’alleato tedesco, sottolineando il tradimento della monarchia e del governo Badoglio, compresi tutti i sostenitori, a qualunque titolo, lasciando intendere nettamente che gli Alleati angloamericani continuavano ad essere i nemici. La necessità di lavare l’onta dell’onore compromesso dall’annuncio dell’armistizio dell’8 settembre, con la conseguente umiliazione di essere disarmati dall’alleato tradito, i tedeschi, perché dovevano necessariamente difendersi dal cambio di fronte ovviamente ritenuto vigliacco. Il bisogno di riscattare i propri territori occupati sempre dall’alleato tedesco, ma anche dal nemico che stava avanzando per la penisola, complice il governo Badoglio, che gettava ancor più vergogna sulle migliaia di soldati caduti. Era necessario, dunque, riprendere le armi a fianco degli alleati tedeschi e giapponesi, iniziando a ripulire il Paese. A cominciare dai primi veri traditori, i membri del Gran Consiglio del Fascismo, che avevano dichiarato deposto il loro Duce il 25 luglio 1943. L’obiettivo era chiaro: solo il sangue poteva cancellare il disonore. Bisognava poi riorganizzare le Forze Armate e la Milizia. Il nuovo governo nacque, così, il 23 settembre, termine ultimo dato dal plenipotenziario Rahn per emettere il comunicato con la lista dei ministri. La prima riunione del nuovo Consiglio dei Ministri ebbe luogo alla Rocca delle Caminate il 27 settembre, in quella residenza estiva di Mussolini alla quale da subito avrebbe voluto tornare. La riunione non fu facile, dal momento che era chiaro a tutti quanto fosse impossibile per la nuova Repubblica muovere i suoi passi. Impossibile spostarne la capitale a Roma, dal momento che l’avanzata angloamericana era abbastanza rapida e i tedeschi volevano sedi lontane dal confine e prossime, invece, al confine con i propri territori. Inesistente l’esercito, la struttura amministrativa, i finanziamenti. Era necessario iniziare tutto da capo, quindi venne scelta una sede sul lago di Garda dove Mussolini decise di risiedere. Precisamente prende alloggio a Villa Feltrinelli, a Gargnano, dove arriva il 10 ottobre; gli uffici di Presidenza vengono posti poco distante, alla villa delle suore Orsoline, mentre le sedi dei ministeri e dei vari uffici vengono sparse un po’ ovunque: a Salò, a Brescia, a Lonato. A Salò prese sede l’Agenzia Stefani che si occupava di diramare i comunicati alla stampa e proprio perché l’Agenzia inoltrava i dispacci da Salò, la Repubblica Sociale venne soprannominata Repubblica di Salò, o repubblichina per i detrattori. L’adesione alla R.S.I. da parte di alcuni fu entusiastica e immediata. Coloro che erano fascisti convinti, altrettanto convintamente aderirono alla neonata organizzazione per riscattare l’orgoglio italiano ferito dalla vigliaccata che era stata compiuta dal governo e dal Re, perché tale veniva vissuta. I funzionari che entrarono a far parte della struttura organizzativa furono circa 14mila, tra convinti del regime, coloro che svolgevano un regolare buon lavoro, chi temeva di perdere prerogative di carriera e chi, invece, temeva rappresaglie politiche, piuttosto che di finire chissà come in mano ai nazisti o agli angloamericani. La scelta non fu facile perché, al di là di coloro che professavano convinte idee fasciste, l’imminente arrivo proprio degli angloamericani prometteva la fine della guerra e miglioramenti almeno nella situazione precaria quotidiana. Tra chi reclutava persone per il Nord c’era Almirante che spiegava le ragioni della R.S.I. e la necessità di vincere, in un clima che ricordava molto i raduni entusiastici da Marcia su Roma o di poco prima della guerra. Nel frattempo, rinasce anche il partito che diventa Partito Fascista Repubblicano, con la riapertura delle Federazioni un po’ in tutte le città dove il partito fascista era andato scomparendo una volta dichiarato fuori legge dal governo Badoglio. Ben presto proprio dalle Federazioni e da alti rappresentanti del Partito si alzano le lamentele verso gli aderenti alle fila che non erano più selezionati tra la migliore gioventù o tra i migliori militanti convinti, ma riunivano accozzaglie di personaggi più attirati dalle idee di rivalsa e violenza che da alte idee politiche o di riscatto nazionale. L’attività febbrile portò alla costituzione del primo Congresso che si tenne nelle sale di Castelvecchio a Verona il 14 novembre, conclusosi con la ratificazione ufficiale della nascita della Repubblica Sociale Italiana e di un manifesto programmatico che aveva questo esordio:
“Il primo rapporto nazionale del Partito fascista repubblicano: leva il pensiero ai Caduti del Fascismo repubblicano, sui fronti di guerra, nelle piazze delle città e dei borghi, nelle foibe dell’Istria e della Dalmazia che si aggiungono alle schiere dei Martiri della Rivoluzione, alla falange di tutti i morti per l’Italia; addita nella continuazione della guerra a fianco della Germania e del Giappone fino alla vittoria finale e nella rapida ricostruzione delle Forze armate destinate ad operare accanto ai valorosi soldati del Führer, le mete che sovrastano qualunque altra di importanza ed urgenza; prende atto che i decreti del Partito porteranno intransigente volontà ed esemplare giustizia e, ispirandosi alle fonti e alle realizzazioni mussoliniane, enuncia le seguenti direttive programmatiche per l’azione del Partito”. Oltre alla costituzione della Repubblica Sociale, in politica estera si doveva operare per eliminare i secolari intrighi britannici dal continente, abolendo il sistema capitalistico interno.
Le difficoltà furono da subito evidenti: all’interno del Partito, e di conseguenza della neonata Repubblica, le correnti erano discordi su molti punti programmatico-organizzativi, tra i quali la Costituente, di conseguenza non era semplice portare avanti quello che doveva essere un vero e proprio governo. Dal canto loro i tedeschi, pur se molti dei gerarchi non vedevano di buon occhio la Repubblica, di certo erano sollevati dal fatto di non dover organizzare i territori italiani. Anche all’interno della gerarchia tedesca vi erano varie fazioni e vari punti di vista, spesso in contrasto tra loro, e se è appunto vero che usavano l’idea di R.S.I. come mezzo organizzativo territoriale, allo stesso tempo non mancavano di reclutare personale volontario per le loro forze, soprattutto proprio tra chi vedeva il tradimento italiano come sbagliato nei confronti di un alleato così fedele da fare liberare il Duce. Pertanto alcuni italiani si arruolarono volontari nelle SS italiane, costituendo una forza ausiliaria di appoggio all’alleato nazista. Lo scopo tedesco era quello di utilizzare gli italiani volontari nelle loro fila per liberare le forze tedesche che, così, potevano impegnare il nemico diversamente. Ad esempio, gli italiani potevano tenere in scacco gli Alleati lungo le coste per permettere azioni in profondità che avrebbero, se non altro, rallentato l’avanzata nemica sul suolo italiano. Tali erano, infatti, le direttive dell’Oberkommando della Wehrmacht italiana. Altra organizzazione che arruolava molti italiani era la Todt per utilizzarli come forza lavoro, sia in Italia che in Germania dove molti vennero inviati. A questo punto, se l’idea originale di Mussolini era quella di ricostituire un esercito intorno alla rinata Milizia, le cose divennero difficili, tanto da portare alla sofferta scelta di affidare la riorganizzazione dell’esercito a Rodolfo Graziani, poco amato da Mussolini stesso, ma unico con sufficiente esperienza. Graziani riunì in sé il Ministero dell’Esercito, il Ministero della Marina e il Ministero dell’Aeronautica, chiamandolo prima Ministero della Difesa e poi Ministero delle Forze Armate. Sembra a questo punto che le mosse principali fossero volte a costituire una struttura organizzativo-politica, più che a pensare ad organizzare la vita degli italiani. Per ottenere il necessario permesso tedesco, Graziani si adoperò per convincere gli ufficiali ad entrare nell’esercito repubblicano e organizzarlo. Per farlo, cominciò ad aumentare gli stipendi, che passarono a circa 20mila lire al mese per un generale; circa 12mila lire al mese per un colonnello; circa 6mila lire per un capitano. Stipendi faraonici, se si pensa che un impiegato percepiva meno di 2mila lire mensili. Pertanto furono in molti gli ufficiali che risposero positivamente alla chiamata, raggiungendo la cifra di 12mila solo a Roma, circa 60mila in totale. Non essendo tutti necessari, verranno tenuti a disposizione.
Il 9 ottobre 1943 era programmato un incontro tra Hitler e Graziani. Nel promemoria per Graziani, i punti da discutere erano tanti. Soprattutto se il governo tedesco intendesse trattare l’Italia come territorio occupato o ristabilirne al più presto l’indipendenza politica, con i relativi rapporti di alleanza. Nel caso il governo del Reich volesse lasciare l’indipendenza all’Italia, essa doveva avere libertà d’azione, di comunicazione e di trasmissione agli organi politici e militari del governo italiano, altrimenti sarebbe stato impossibile assolvere alle proprie funzioni. Bisognava poi determinare un territorio di guerra in cui le autorità politiche italiane avessero facoltà di azione completa. L’armamento da adottare avrebbe dovuto essere quello tedesco, visto che le condizioni dell’Italia non permettevano di certo approvvigionamenti. Sarebbe dovuto poi essere organizzato un periodo di addestramento alle armi tedesche, dato che erano di diversa dotazione rispetto alle italiane.
Lo scopo di Graziani, discusso in Germania con Hitler e i suoi luogotenenti, era di costituire 25 divisioni complete di servizi e complementi, per un totale di circa mezzo milione di uomini, ma gli alleati concessero la creazione di un esercito da 12 divisioni, mentre il capo di Stato Maggiore dell’esercito germanico, il feldmaresciallo Keitel, affermava che soltanto un esercito italiano inesistente non avrebbe tradito i tedeschi, ad indicare la chiara percezione che poteva avere degli italiani, soprattutto organizzati nuovamente in una struttura militare. Le prime quattro divisioni italiane si sarebbero addestrate in Germania, nei campi di Müsingen, Sennelager, Grafenwöhr, Heuberg, al comando degli IMI, cioè dei militari presi prigionieri dai tedeschi all’indomani dell’8 settembre, ma che avevano nel frattempo scelto di aderire alla R.S.I., sia ufficiali che sottufficiali, con personale di leva di nuove classi in Italia (quelle del 1924/1925, oltre al personale del 1923 in congedo provvisorio). Il 27 ottobre, il Consiglio dei Ministri della R.S.I. approvava lo scioglimento delle vecchie forze armate regie e una nuova legge che approvava le forze armate nuove. Data la discussione inerente lo scioglimento della Milizia, si giungerà all’accordo di costituire la Guardia Nazionale Repubblicana (Gnr) composta dagli aderenti alla vecchia Milizia, dai Carabinieri e dalla polizia d’Africa italiana. La Gnr avrebbe avuto compiti di polizia militare e polizia interna, compresa la lotta alla Resistenza. L’annuncio della nascita della nuova Guardia venne dato il 27 novembre e ufficializzato l’8 dicembre 1943. Gli aderenti iniziali, entusiastici, furono molti, in modo particolare per dimostrare ai tedeschi che non era colpa di tutti gli italiani quanto era accaduto, ma c’erano le forze italiane desiderose di riscattare lo sbaglio di alcuni. Anche dal Ministero della Cultura popolare i toni erano i medesimi: doveva essere messo in risalto l’onore italiano nei confronti di quell’alleato tradito che ora, è bene ricordarlo, occupava il suolo italiano per buona parte e non con blande intenzioni. In nome dei morti e dei mutilati, si doveva lottare per la Patria e riscattarne l’onore. Gli studenti dovevano lasciare ogni loro interesse per correre a salvare la Patria in quel momento di assoluto bisogno, di assoluto disonore. Pertanto, anche quel genere di discorsi altisonanti comportavano, negli anni di preparazione della gioventù italiana alla lotta, adesioni rapide ad una compagine che dava garanzie di sapere come agire di fronte a giorni in cui i fatti non erano stati per niente chiari. Si leggeva sui manifesti: “Il nostro glorioso Esercito è stato ricostituito. Il bel grigio verde che avete indossato in cento battaglie dalle steppe russe al deserto libico egiziano, vi attende. Riavrete distintivi e insegne ben noti e cari alla memoria di tutti i vecchi combattenti e, con le stesse bandiere per le quali i vostri padri non risparmiarono la vita, riporterete la Patria sulla via della salvezza e dell’onore”. Lo stesso Ministero, sotto le direttive di Giorgio Almirante, diffonde cartoline e volantini pubblicitari per inneggiare al dovere di riprendere le armi a fianco dell’alleato tedesco.
Accanto ai manifesti, l’azione incisiva della propaganda cinematografica riprende. Infatti, i cinegiornali e i lungometraggi dell’Istituto Luce mettono in evidenza l’arruolamento sotto il fascio littorio ancora, l’accorrere della migliore gioventù nella Gnr o nell’esercito. Ricompaiono i cari simboli del teschio, dei fasci e delle fiamme nere, a indicare la continuità proposta, dispetto alla rottura badogliana, dalla R.S.I.
In “Brescia repubblicana” del 24 novembre 1943, si legge che anche i podestà, i sacerdoti e i funzionari pubblici si dovevano mobilitare per la buona riuscita dell’arruolamento, anche perché alcune circolari sancivano chiaramente che, in caso di mancata presentazione dei chiamati alla leva obbligatoria, i provvedimenti sarebbero stati presi proprio a carico dei podestà e dei capi famiglia. Alcuni casi si ebbero subito, a monito, con arresto dei capi famiglia e il ritiro delle tessere annonarie per l’acquisto dei beni di prima necessità. Si aggiunsero provvedimenti ancora più severi, come il ritiro della licenza di esercizio alla famiglia dei renitenti, il divieto di uccidere i maiali, la sospensione dall’impiego, eccetera.
Il Prefetto di Brescia scriveva: “[…] la costituzione del nuovo Esercito italiano […] dovrà riscattare l’onore perduto col tradimento dell’8 settembre. Ogni italiano che ami veramente la Patria non può non volere che le nostre bandiere ritornino a sventolare alla testa dei suoi reggimenti. Si impone da parte di ognuno di noi il dovere di svolgere la più assidua e appassionata attività perché nell’animo dei nostri giovani si riaccenda, ove occorra, il sentimento del dovere: il dovere di impugnare le armi per ricacciare, al fianco dei valorosi alleati germanici il nemico invasore del sacro suolo della Patria. Quel nemico che dal cielo distrugge le nostre città, uccide le nostre donne, i nostri vecchi, i nostri bambini”. I risultati furono soddisfacenti, pur essendo molti i giovani che non si presentavano affatto all’ufficio di leva, oppure orientati alla Gnr, alla Todt, alle SS. Se la chiamata alle armi riguardava 186mila uomini, nel gennaio del 1944 se ne erano presentati 87mila, dimostrando da subito l’inadeguatezza della macchina organizzativa. Ottenuto il discreto risultato di arrivo degli uomini, infatti, non si sapeva dove metterli e come gestirli. Mancavano le caserme, le armi, gli equipaggiamenti, rendendo l’adesione un immediato pentimento, mentre dove le condizioni di trattamento erano migliori, l’adesione divenne più entusiastica ancora. Il 16 gennaio 1944, Mussolini tolse l’idea di apoliticità delle forze armate, imponendo il saluto romano anche all’esercito e che le stellette venissero tolte, in quanto ricordo della monarchia. Avrebbero dovuto essere sostituite con il gladio romano. Il 9 febbraio venne imposto a tutte le reclute il giuramento di fedeltà alla R.S.I., per frenare il dilagare del bolscevismo, come ebbe ad affermare Graziani. Sempre ai primi di febbraio, data la scarsa adesione, venne emanato un nuovo bando per le classi 1922, 1923 e primo quadrimestre 1924. Per frenare la renitenza alla leva, il 18 febbraio 1944 venne emanato il tristemente famoso “Bando Graziani”, secondo il quale renitenti e disertori sarebbero stati condannati a morte per fucilazione, così come i renitenti del precedente bando avrebbero avuto 15 giorni di tempo per regolarizzarsi prima di incorrere nella medesima pena. I risultati del Bando furono immediati e felici per gli intenti repubblicani, ai fini dell’arruolamento: ad esempio, nelle province di Brescia e Bergamo soltanto l’1,6 per cento dei richiamati non si presentò al Distretto Militare.
Nel frattempo, la R.S.I. era stata riconosciuta dalla Germania e dal Giappone, che avevano indotto al riconoscimento Bulgaria, Croazia, Romania, Slovacchia, Ungheria, Cina, Thailandia. Ufficiosamente iniziarono relazioni diplomatiche con Argentina, Portogallo, Spagna, Svizzera e Vaticano, mentre la Francia di Vichy e la Finlandia non la riconobbero. Mussolini in quei mesi era occupato nel tentativo di indire una Costituente, come già affermato nel programma politico di Verona, che avrebbe dovuto vedere la delegittimazione del Re, con la fine della monarchia e il riconoscimento della Repubblica Sociale messi in atto addirittura dal Parlamento. In sostanza, la Camera dei Fasci e delle Corporazioni avrebbe dovuto autoconvocarsi, ritenendo illegittimo il provvedimento di scioglimento proclamato dal governo Badoglio che sarebbe stato considerato un colpo di stato, messo in atto addirittura arrestando dei membri della Camera stessa prima del colpo di stato e prima del suo scioglimento, quando gli stessi membri godevano dell’immunità diplomatica. Insomma, un comportamento illegittimo sotto tutti i punti di vista, ma altrettanto impossibile sarebbe stato il sogno di Mussolini, dal momento che il Parlamento sarebbe dovuto essere costituito da un Senato che non esisteva e che, per sistemare le cose, avrebbe dovuto dichiarare la legittimità della neonata Repubblica. Forse del tempo perso, che comunque portò Mussolini a un ruolo ancor meno significativo del previsto nel suo nuovo governo, interlocutore dei tedeschi. I quali, nel frattempo, avevano messo in atto in Italia la loro politica repressiva, non soltanto l’azione bellica contro il nemico che, pur se a volte lentamente, continuava ad avanzare.
Nemico costituito dagli angloamericani che, dal canto loro, avevano comunque sperato nell’apporto dell’esercito italiano contro la Germania. Pensavano inizialmente, cioè, che con l’armistizio dell’8 settembre le forze armate italiane davvero si rendessero conto che la situazione era cambiata e che, per ordini o per scelta, si sarebbero schierate con loro per rendere la fine della guerra la più celere possibile. Se, con la voce del comando dell’esercito tedesco, al 10 settembre 1943 l’esercito italiano non esisteva più, e risultava assolutamente evidente che l’Italia fosse il ventre molle dell’Asse Roma Berlino, allora con la stabilizzazione del fronte a Cassino, il fronte italiano diventava sempre meno importante, lasciando tempo e forze organizzative al settore ben più interessante della Francia, con quello che sarà lo sbarco in Normandia. Pertanto il territorio italiano diventava sempre meno basilare, lasciando che le operazioni militari fossero nulla più di una guerra di logoramento, condotta via via con forze ridotte per il trasferimento in Francia dei reparti: impegnare i tedeschi sul fronte italiano sarebbe stato agevole e strategicamente determinante, affinché l’altro fronte fosse la sorpresa definitiva al Reich. Il peso politico maggiore sull’Italia lo avevano gli inglesi capeggiati da Churchill, i quali erano maggiormente a conoscenza della situazione italiana e avevano maggior peso politico sull’Italia, verso la quale gli americani non avevano una vera e propria politica. Pertanto lasciavano fare agli alleati che non avevano grande fiducia nei quadri italiani sia ufficiali, dato il comportamento dopo Cassibile, sia partigiani che spesso venivano considerati poco controllabili. Inoltre, la situazione in Grecia si stava facendo complessa e pertanto prevaleva il punto di vista di Churchill. Il quale non aveva certo dimenticato la necessità di punire l’Italia, sia per essere entrata in guerra contro la Gran Bretagna in un momento così difficile come il 1940, sia perché proprio l’Italia aveva messo in scacco l’egemonia britannica nel Mediterraneo, uscendone perdente. L’Italia, quindi, avrebbe dovuto conquistarsi e meritarsi pezzo per pezzo la sua libertà, dato che se una nazione si sottomette ad un regime tirannico, non può essere assolta dalle colpe di cui il regime si è reso colpevole, come affermò Churchill nell’agosto del 1944. Pertanto, dato che nell’agosto del 1944 Roma era già stata liberata, il primo ministro britannico riteneva impossibile passare dallo status di cobelligerante contro i tedeschi (ottenuto con l’armistizio del 1943) ad un trattato di pace. Infatti, gli Alleati non avevano alcun bisogno dell’Italia per concludere le operazioni militari nel Paese e il popolo italiano liberato non era sufficientemente rappresentativo di tutta quella parte di italiani ancora in mano ai tedeschi nel Centro-Nord.

Comm. Alessia Biasiolo

Bibliografia essenziale
Mario Avagliano, Marco Palmieri: “L’Italia di Salò”, il Mulino, Bologna, 2017
Giorgio Bocca: “La repubblica di Mussolini”, Mondadori, Milano, 1997
Frederick William Deakin: “Storia della Repubblica di Salò”, Einaudi, Torino, 1970
Renzo De Felice: “Mussolini l’alleato”, Einaudi, Torino, 1997
“Il Manifesto di Verona”, 14 novembre 1943

Arrigo Petacco, Sergio Zavoli: “Dal Gran Consiglio al Gran Sasso”, Mondadori, 2013

domenica 3 dicembre 2017

Possibilità di scirvere

Al fine di migliorar ele proprie capacità di pubblicare ed affinare le ricerche in corso, come banco di prova e di miglioramento, questo Blog è messo a disposizione degli Studenti che intendono pubblicare note ed articoli, concordati, per familiarizzarsi con l'editing.

Prendere contatto con studentiecultori2009@libero.it.

In Riferimento per eventuali pubblicazioni su carta è: centrostudicesvam@istitutonastroazzurro.org.

Massimo Coltrinari

giovedì 16 novembre 2017

Tavola Rotonda. Martedì 21 novembre 2017 ore 17


UNIVERSITA' LA SAPENZA ROMA

 MASTER DI ii LIVELLO
 GEOPOLITICA E SICUREZZA GLOBALE

Tavola Rotonda sul tema


ITALIA E LA VIA DELLA SETA

ORGANIZZAZIONE

PROF. PAOLO SELLARI
 DIRETTORE SCIENTIFICO
MASTER IN GEOPOLITICA E SICUREZZA


giovedì 2 novembre 2017

martedì 24 ottobre 2017

Casa dell'Aviatore. 2 novembre 2017

Presentazione del nuovo numero monografico di "Geopolitica"
L

L'era di Xi Jinping: bilanci e prospettive future

Dott. Daniele Scalea - IsAG
Dott.ssa Claudia Astarita - CeMiSS – SciencesPo
Amm. Fabio Caffio - Marina Militare
Dott. Gabriele De Stefano - Ministero Affari Esteri
Dott. Matteo Dian - Università di Bologna
Modera: Dott.ssa Maria Cuffaro - RAI

Giovedì 2 Novembre 2017 ore 10:00, 
Sala Baracca - Casa dell'Aviatore, 
Viale dell'Università 20

è gradita giacca e cravatta per i signori uomini

mercoledì 18 ottobre 2017

Le Marche ela Prima Guerra Mondiale. Il 1915. Dall'euforia interventista alla realtà della trincea

   PRESENTAZIONE


Il volume, terzo della serie, riporta i contenuti dei seminari, delle conferenze e delle lezioni che l’Autore ha tenuto, nel periodo tra maggio e dicembre 2015, sui temi legati agli eventi che si sono succeduti negli stessi mesi dell’anno 1915.
È un modo per ricordare efficacemente la data centenaria della Grande guerra, non però nella sua globalità, ma nel fuoco di uno specchio convergente verso un definito contesto spazio-temporale.
Sulla scorta dei due volumi che l’hanno preceduto, anche questo mantiene l’architettura adottata, un’architettura che vede l’allargamento e l’arricchimento dei testi e dei contenuti, regalando così al lettore, “tout court”, quel senso di continuità e di legame tra gli eventi bellici.
L’elemento di novità di questo volume è rappresentato senz’altro dall’inquadramento dei fatti avvenuti nelle Marche e nel risalto che si è voluto dare alle  ripercussioni che la Guerra ha prodotto nella Regione.
Fino ad ora si era parlato degli eventi che hanno portato l’Italia ad entrare in guerra contro gli Imperi Centrali, ora si parla degli eventi che sono stati “il vissuto della guerra” sia per le Marche che per i marchigiani.
Una certa attenzione viene poi posta dall’autore nello scrivere ancora di quei Reparti italiani del Primo Conflitto Mondiale che furono in qualche modo associati al territorio marchigiano a cui si sono aggiunti, in questo volume, la Brigata “Messina” e la Brigata “Aqui”.
La Brigata “Messina”, con sede ad Ancona, aveva alle sue dipendenze organiche il 93° e il 94° Reggimento  rispettivamente ad Ancona ed a Fano, mentre la Brigata “Aqui” aveva il suo 17° Reggimento di stanza ad Ascoli Piceno.
Nel dare continuità con quanto esposto nel primo volume, dello spazio è stato dedicato anche ai volontari ed agli interventisti ed al comportamento da loro tenuto nei primi mesi di guerra.
Inoltre il lettore voglia considerare, come prima accennato, quale nucleo centrale del volume la descrizione, ampiamente illustrata, di come la guerra abbia segnato profondamente le Marche  nelle sue varie province e delle ripercussioni che da tale conflitto si ebbero in ogni strato della società, dando al volume un aspetto così particolare e vicino, rispetto ai precedenti, alla realtà regionale.
Chiude anche questo volume il consueto corredo documentale che attinto, in gran parte,  presso il Comando Militare Esercito della Regione Marche, ne permea il nesso in un rinnovato connubio tra le Istituzioni ed i cultori della materia.
Sicché, sfogliando le pagine di questo bel testo di storia patria si avverte tangibile  la presenza di un rinnovato senso civico di appartenenza storico culturale agli eventi di allora e che sottolinea, inequivocabilmente, la dedizione e l’impegno profusi dall’autore nel ricordare, a cento anni di distanza, la guerra dei nostri padri.

Giorgio Clemente


Venerdi 3 Novembre 2017 ore 18

IL CENTRO STUDI DI AGUGLIANO E CASTELD'EMILIO

E

L'UNIVERSITA' CINQUE CASTELLI

VENERDI 3 NOVEMBRE 2017 ORE 18
presso la Biblioteca Comunale

presentano il volume
Le Marche e la prima Guerra Mondiale: il 1915
da''euforia interventista alla realtà della trincea

interverranno
Il Presidente della Università Cinque Castelli  Giacomo Santilli
Il Presidente del Centro Studi di Agugliano e Castel D'Emilio Aroldo Berardi


tutti sono invitati

L'Occasione è anche per ricordare la data del 4 Novembre 
conclusione del nostro ciclo unitario

mercoledì 11 ottobre 2017

Presentazione del Volume n. 23 della Collana Storia In Laboratorio



LE MARCHE E LA PRIMA GUERRA MONDIALE: 1L 1915
Dall'Euforia interventista alla realtà della trincea.



Indice
Presentazione  di Giorgio Clemente
Ringraziamenti 
Prefazione di Pericle Tiscione
Ringraziamenti 
Nota dell’Autore 
Premessa 

Introduzione. Una decisione avventata.

Capitolo 1 – La realtà della trincea.
1.1.  La partenza per il fronte
1.2.  La Brigata “Marche”: ordinamento ed impiego nel 1915
1.3.  La Brigata “Ancona”: ordinamento ed impiego nel 1915
1.4.  La Brigata “Alpi”: ordinamento ed impiego nel 1915
1.5.  Il fronte dolomitico
1.6.  La mancata irruzione ella 4a Armata oltre confine
1.7.  Le operazioni della 10a Divisione: gli inutili sacrifici della Brigata
       “Marche” e della Brigata “Ancona”

Capitolo 2 – Lo sbalzo in avanti e le quattro offensive
        sull’Isonzo.
2.1.  La Brigata “Macerata”: ordinamento ed impiego nel 1915
2.2.  La Brigata “Messina”: ordinamento ed impiego nel 1915
2.3.  La Brigata “Acqui”: ordinamento ed impiego nel 1915
2.4.  Il fronte isontino 
2.5.  La "Macellata” il triste soprannome della Brigata “Macerata”.
2.6.  I sacrifici senza successo della Brigata “Messina”.

Capitolo 3 – la fine dei sogni e delle illusioni..
3.1.  L’interventismo risorgimentale in trincea .
3.2.  L’interventismo antimilitaristi alla prova. Corridoni, Nenni
         Mussolini al fronte..
3.3.  L’interventismo futurista: il sogno della guerra realizzato .


Capitolo 4 – Le Marche e la guerra nel 1915

4.1.  La guerra nella provincia di Pesaro.
4.2.  La guerra nella provincia di Ancona..
4.3.  La guerra nella provincia di Macerata.
4.4.  La guerra nel fermano...
4.5.  La guerra nella provincia di Ascoli Piceno..

Capitolo 5 – Le Marche in trincea ..

5.1.  La trincea marittima.
5.2.  Ancona, ancora una città indifesa, ma in trincea...
5.3.  L’abbozzo della difesa costiera ed antiaerea..
5.4.  Ancona recupera il suo ruolo strategico: i voli di D’Annunzio.

Conclusione. .

Postfazione. di Massimo Ossidi .

Abbreviazioni. 

Bibliografia.
Indice delle Illustrazioni.
Indice degli Schizzi..
Indice delle Cartine e Mappe..

Documenti. .
Tabula Gratulatoria...

Indice dei nomi propri .
Indice dei nomi geografici .
Indice dei  nomi dei Corpi, Reparti, Unità 

Collana Storia in Laboratorio.

Roma, Editrice Nuova Cultura, 2017, euro 32
SSBN 9788868128517 ebook disponibile

info: www.nuovacultura.it
ordinazioni: ordini@nuovacultura.it
                     cervinocause@libero.it

lunedì 2 ottobre 2017

Lanzarotto Malocello

VENERDI’ 20 OTTOBRE 2017 – ore 19,30
UNED di  Spagna – sede di Lanzarote (Universidad  Nacional de Educacion a Distancia )
                                                             20-ott
                                                                    fed
L’Avv.Alfonso Licata, presidente del Comitato Internazionale delle Celebrazioni del VII Centenario della scoperta di Lanzarote e delle Isole Canarie del navigatore italiano Lanzarotto Malocello , su invito della UNED ( la più grande e prestigiosa Università di Spagna),terrà una conferenza nell’ambito di un corso di Studi su “ Fuentes y miradas para una historia de Lanzarote”ove parlerà diffusamente della figura dell’insigne navigatore varazzino Lanzarotto Malocello e del libro tradotto in lingua spagnola “Lanzarotto Malocello, de Italia a Canarias”edito dall’Ufficio Storico dello Stato Maggiore della Difesa italiano e successivamente pubblicato dal Cabildo di Lanzarote in lingua spagnola.

venerdì 29 settembre 2017

Storia delle Marche dal 1861 al 1945 II Anno

I lezione.  II parte
Gli anni della Triplice Alleanza 1882 1914
Cosenz e Tancredi Saletta e la difesa del confine orientale

martedì 19 settembre 2017

Storia delle Marche. II ciclo


C54 Storia delle Marche 1861 1945
I ciclo  1861 . 1882. Anno Accademico 2016. 2017
II ciclo accademico 1882 1918 Anno Accademico 2017 2018
III ciclo 1918 1939 Anno Accademico 2018 2019
III ciclo 1939 1945 Anno Accademico 2019 2020

Le sintesi delle lezioni sono riportate su questo blog
Nella colonna accanto i riferimenti dei post già inseriti

E-mail di riferimento
Massimo Coltrinari.  direttore.cesvam@istitutonastroazzurro.org

mercoledì 28 giugno 2017

Una prospettiva per chi vuole impegnarsi


Lotta all’iconoclastia
L’Italia e i caschi blu della cultura
Paolo Foradori
28/06/2017
 più piccolopiù grande
La distruzione della Grande Moschea di al-Nuri a Mosul, dove Al Baghdadi aveva annunciato nel 2014 la nascita del Califfato, è solo l’ultimo episodio dell’attacco sistematico e deliberato al patrimonio culturale della Mesopotamia, la ‘culla della civiltà’.

In risposta alla furia iconoclasta del sedicente Stato islamico, l’Isis, la comunità internazionale si è mobilitata per mettere in campo nuovi e più efficaci strumenti per rafforzare il regime internazionale di protezione del patrimonio culturale. Particolarmente rilevante è il progetto, fortemente voluto dall’Italia, di istituire i Caschi Blu della Cultura, una componente culturale da integrare nelle operazioni di supporto alla pace e alla sicurezza internazionale.

Lotta di potere e damnatio memoriae
Sebbene la storia dell’iconoclastia si perda nella notte dei tempi, il fenomeno si è intensificato negli ultimi decenni come risultato del mutamento della natura e delle modalità di conduzione delle ‘nuove guerre’ che proliferano nel contesto internazionale post-guerra fredda.

Il tema dell’identità è al centro di questi conflitti e la dimensione dell’appartenenza etnica o religiosa è fondamentale nel definire le ragioni e gli obiettivi dei combattimenti. Se la cultura è la visualizzazionedell’identità, non sorprende allora che il patrimonio culturale sia diventato l’obiettivo diretto e deliberato di molte delle guerre recenti, dai Balcani alla Cambogia, dall’Iraq all’Afghanistan, dal Mali alla Siria, dalla Libia allo Yemen.

L’iconoclastia dell’Isis non è vandalismo cieco e irrazionale, ma risponde ad una precisa e sofisticata strategia che il gruppo terroristico persegue nell’intento di creare, consolidare ed espandere il proprio potere, anche ai fini della jihad globale.

Questo obiettivo può essere raggiunto affermando la propria ideologia radicale (anche religiosa) ed imponendo una dominazione assoluta sulla popolazione del territorio di volta in volta conquistato, compreso il contesto culturale e sociale in cui tale popolazione vive.

La strategia è annientare fisicamente e culturalmente una comunità aliena o ostile, soggiogando i sopravvissuti dopo averli privati delle loro identità individuali e collettive. Si vuole sottrarre a una comunità il passato eliminando i simboli della sua cultura per negarle anche il futuro. La strategia è quella della damnatio memoriae: obliterando il passato, l’Isis vuole resettare o riscrivere la storia da un nuovo inizio o ‘anno zero’, a partire dal quale solo la propria visione del modo ha diritto di esistere.

Il peacekeeping culturale
La protezione del patrimonio culturale, nelle parole del direttore generale dell’Unesco Irina Bokova, è ‘non solo un’emergenza culturale, ma anche una necessità politica e di sicurezza’. Rispondendo all’appello dell’Onu, l’Italia ha assunto una forte leadership mondiale per mobilitare e coordinare gli sforzi della comunità internazionale.

Su proposta italiana, nel 2015 l’Unesco ha approvato una risoluzione per ‘rafforzare la protezione della cultura e la promozione del pluralismo culturale in caso di conflitto armato’. Tale risoluzione comprende una strategia che si basa su due elementi fondamentali: 1) l’incorporazione di una componente culturale nelle attività di peacekeeping; 2) la creazione di task force nazionali specificatamente dedicate alla salvaguardia del patrimonio culturale.

In meno di un anno, il 16 febbraio del 2016, si è arrivati alla firma di un accordo tra Unesco e governo italiano per la formazione della prima task force nazionale denominata ‘Unite4 Heritage’. Il recente G7 della Cultura di Firenze ha ribadito il ruolo distintivo della cultura come strumento di dialogo tra i popoli e la necessità di un mandato culturale nelle missioni di sicurezza e di mantenimento della pace. Infine, il 24 marzo 2017, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha approvato una risoluzione italo-francese (2437) che prevede il possibile impiego di una componente culturale nelle missioni di peacekeeping.

In attesa di un accordo operativo che precisi obiettivi e modalità di intervento, la task force italiana è stata istituita e testata con successo nelle zone terremotate del centro Italia, dove ha messo in sicurezza migliaia di opere d’arte. Il contributo più rilevante alla forza d’intervento è dato dal Comando dei Carabinieri per la Tutela del Patrimonio culturale, internazionalmente riconosciuto come la più efficace polizia al mondo nella protezione del patrimonio artistico. Al suo fianco opera una componente civile costituita da archeologi, restauratori e storici dell’arte del Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo.

Solo l’effettivo schieramento sul campo della task force dirà se l’iniziativa promossa dall’Italia risulterà efficace. Tra aspettative e opportunità, il peacekeeping culturale si apre infatti a scenari incerti e densi di pericoli e ‘conseguenze inattese’.

Nel frattempo, va apprezzato e sostenuto il grande impegno e attivismo italiano. Lo slogan, a volte abusato, di Italia ‘superpotenza culturale’ in questo caso ben descrive l’eccellenza e la leadership del Paese nel contrastare la barbarie e l’oscurantismo di chi vuole distruggere i simboli dell’arte, della cultura e della civiltà.

Paolo Foradori è Professore associato di Scienza politica presso la Scuola di Studi Internazionali dell’Università di Trento.

Riflessioni sulle elezioni francesi

Lezioni francesi
Il collegio uninominale in epoca post-ideologica
Alessandro Miglioli
26/06/2017
 più piccolopiù grande
Le elezioni politiche francesi si sono concluse consegnando al Paese uno scenario inimmaginabile fino a quaranta giorni or sono. La République en Marche!, Il partito del recentemente eletto presidente Emmanuel Macron, ha riportato una vittoria per cui la locuzione “a valanga” risulta quanto mai letterale.

All’indomani del primo turno l’11 giugno, le proiezioni davano a Macron circa il 70% dei seggi e, nonostante il secondo turno il 18 giugno gli abbia poi consegnato una maggioranza più contenuta (di poco superiore al 60%), il risultato del nuovo movimento centrista rimane impressionante.

Per capire quanto questo evento fosse inatteso, basti pensare che all’indomani delle elezioni presidenziali del 7 maggio gli analisti francesi si interrogavano su quale partito sarebbe stato cercato da Macron come alleato di governo, perché il mancato conseguimento di una maggioranza parlamentare veniva quasi dato per scontato.

Punti di forza e di debolezza
Gli stessi analisti oggi si interrogano sulle ragioni politiche del successo di Macron, sui suoi punti di forza e su quelli di debolezza dei suoi avversari. Nel compiere questa azione, però, complice forse il fatto di essere troppo inseriti nel contesto francese, o ad esso abituati, dimenticano di osservare la reale causa di questo exploit: il sistema elettorale francese stesso, basato sui collegi uninominali.

Un collegio uninominale è, sostanzialmente, una piccola area geografica, nella quale si svolge una competizione elettorale fra vari candidati per un singolo posto da parlamentare. Chi ottiene più voti ha il posto; tutti gli altri, indipendentemente dalle loro percentuali, non sono eletti.

Nonostante una strategia assolutamente vincente, infatti, Macron non ha ottenuto che il 32% dei voti espressi al primo turno, quello in cui tutti i partiti sono presenti. Ancora una volta, certamente un risultato positivo, ma ben lontano dal 61% dei seggi parlamentari conquistati dal suo partito, specialmente considerando che la partecipazione alle elezioni ha fatto registrare un record in negativo, con ben il 51% degli astenuti.

Francia e Regno Unito a confronto
I collegi uninominali però, non possono da soli spiegare questo risultato. Un perfetto metro di paragone sono le elezioni britanniche, avvenute giusto tre giorni prima di quelle francesi.

Al di là della Manica infatti, dove vige un sistema elettorale non dissimile, basato anch’esso sui collegi uninominali, il partito di Theresa May ha fallito l’obiettivo del 50% dei seggi parlamentari, pur riportando una percentuale di voti ben più alta (42,2%) del partito di Macron.

Qual è dunque la differenza fra i due casi in esame? In una parola, l’omogeneità del corpo elettorale francese.

Se nel Regno Unito abbiamo infatti aree rurali a vocazione conservatrice, grandi metropoli fortemente progressiste e ampie aree abitate da minoranze etniche dall’identità politica ben definita, in Francia, pur sussistendo differenze storiche fra un ovest più di sinistra ed un est più di destra, nessun partito può più contare sul controllo esclusivo di zone con maggioranze definite.

Il 42% della May era concentrato in relativamente poche constituencies, con maggioranze assolute, il 32% di Macron invece ha reso possibile, in uno stato con spinte identitarie decisamente più contenute, l’ottenimento di una semplice maggioranza relativa nella stragrande parte dei collegi, comunque sufficiente a vedere i suoi parlamentari eletti.

La situazione italiana
Visto il ritorno in auge, nell’ultimo periodo, dell’infinito discorso su una nuova legge elettorale, forse anche noi italiani possiamo apprendere qualcosa da questo confronto sincronico.

Nonostante i partiti italiani abbiano potuto storicamente godere di zone “a controllo esclusivo”, simili in qualche misura a quelle esistenti in Gran Bretagna, la tendenza da parte delle forze politiche negli ultimi anni è quella di cercare un’immagine il più ecumenica possibile.

Il centrodestra berlusconiano ha costruito la sua fortuna, dalla discesa in campo nel ‘94, sul corteggiamento dell’italianomedio; il centrosinistra negli ultimi anni ha abbracciato posizioni sempre più moderate, nel tentativo di conquistare consensi trasversali, a parziale discapito del suo controllo delle regioni rosse; la Lega ha ormai da anni abbandonato la sua vocazione originaria di partito etnico-regionale; ed il M5S basa gran parte della sua opera di convincimento e propaganda sul web, luogo per definizione staccato dalle particolarità geografiche.

Una transizione da ‘britannica’ a ‘francese’
La politica italiana sembra dunque trovarsi in una fase di transizione da una situazione simile a quella britannica verso una più “alla francese”. Se accettiamo l’assunto che, al netto delle preferenze personali per questo o quel partito, la possibile assegnazione del 61% dei seggi ad un partito che abbia conseguito il 32% dei voti è un evento indesiderabile in democrazia, forse dovremo allora interrogarci sulla bontà di questo sistema.

A questo fatto va aggiunta la considerazione che, in uno stato in cui il voto di scambio è sovente, e tristemente, all’ordine del giorno, la creazione di piccole aree facilmente trasformabili in ‘feudi’ dal politico di turno, potrebbe diventare un rischio per lo stesso funzionamento democratico delle elezioni, prima ancora che per il risultato delle stesse.

Il fallimento parlamentare degli ultimi giorni ha riguardato una legge elettorale con collegi uninominali alla tedesca, ulteriore meccanismo che tramite un combinato disposto di sistema maggioritario e proporzionale avrebbe notevolmente mitigato i possibili effetti di sovra-rappresentazione. Questa poteva essere forse una via più ragionevole, ma l’intesa per la sua realizzazione pare ormai definitivamente tramontata.

I governi monocolore non rappresentano intrinsecamente un rischio per la democrazia, ma la loro legittimità si dovrebbe basare su un ampio consenso elettorale. Il sistema dei collegi uninominali, in Francia, ha ampiamente dimostrato di non potere garantire questa legittimità.

Alessandro Miglioli è laureato all'Università di Bologna in sviluppo e cooperazione internazionale.

mercoledì 21 giugno 2017

McMaster prevale nella strategia Usa

Incremento truppe Usa
Afghanistan: la strategia opaca di Trump 
Ludovico De Angelis
19/06/2017
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Dopo più di 15 anni dall’invasione statunitense, l’Afghanistan è ancora un cumulo di macerie, mentre Donald Trump pensa a un incremento di circa 4000 nuove truppe Usa nel Paese.

Nella capitale Kabul, recentemente, uno degli attentati più brutali compiuti dall’inizio dell’operazione Enduring Freedom ha causato 85 morti ed oltre 400 feriti, palesando per l’ennesima volta la vulnerabilità disarmante del governo centrale nei confronti degli insorti. Nonostante il principale portavoce talebano abbia smentito il coinvolgimento del gruppo, si crede che dietro l’atto brutale possa trovarsi l’influente rete Haqqani, alleato storico dei talebani oggi guidati da Hibatullah Akhundzada.

Avvolto in una coltre di insicurezza endemica, l’Afghanistan è oggi in cima alla classifica dei luoghi più pericolosi del globo, emblema di una situazione securitaria volatile ed imprevedibile a cui anche il terzo presidente statunitense da quando è iniziata la missione è chiamato a dare una risposta.

Più truppe dopo la Moab
A fronte di tale macabra realtà, l’amministrazione Trump ha recentemente vociferato un aumento di alcune migliaia di unità presenti sul territorio, annuendo anche ad un aumento delle truppe di stanza nel Paese degli una volta vituperati alleati della Nato.Tale strategia, che ha già ricevuto alcune critiche in Afghanistan, è considerata figlia del consulente per la sicurezza nazionale del presidente, il generale McMaster, uomo che rappresenterebbe la crescente influenza del Pentagono nel processo decisionale della politica estera di Washington.

Al momento, però, ci troviamo in una fase di stallo: difatti, all’interno del gabinetto di guerra di Trump, sussisterebbero ancora delle divisioni tra militari ed apparato civile, con il controverso Steve Bannon - il capo stratega della Casa Bianca simbolo delle pretese di quest’ultima fazione - che avrebbe manifestato delle perplessità in merito ad un incremento di truppe americane, nel timore che tale iniziativa possa comportare un logorante ed impegnativo esercizio di state-building, storico spauracchio dei conservatori Usa.

Dall’inizio dell’era Trump, l’unico sussulto dell’interesse statunitense per l’Afghanistan è stato rappresentato dal lancio della madre di tutte le bombe, la Moab, il 13 aprile nel distretto est di Achin, con l’obiettivo di distruggere un tunnel utilizzato dal sedicente Stato islamico del Khorasan, il gruppo jihadista di ex talebani che hanno aderito al Califfato. L’ordigno, che ha avuto lo scopo di flettere i muscoli della potenza militare americana, ha inviato un deciso messaggio ai governi di tutto il mondo.

Tuttavia, la GBU-43 – l’ordigno non nucleare più potente presente nell’arsenale Usa - non ha offerto una soluzione fattibile, solida e duratura ai quasi quarant’anni di instabilità del Paese, riportandoci semmai dritti al fulcro della questione afghana contemporanea: ovvero, che la pace nel “cimitero degli imperi” non potrà essere raggiunta esclusivamente militarmente, ma dovrà principalmente passare per uno sforzo politico di riconciliazione su scala nazionale. Un’impresa attualmente considerata mastodontica.

Se l’obiettivo dell’aumento delle truppe è quello di portare i talebani al tavolo dei negoziati, infatti, sappiamo già che lo stesso Barack Obama fallì in una tale avventura durante gli anni della surge (2009-2012), periodo in cui le forze presenti sul territorio afghano aumentarono sino a raggiungere circa 100.000 combattenti.

Per tale ragione, lo sparuto incremento di unità voluto da Trump sembrerebbe essere giustificato più che altro dalla volontà e dalla necessità di rinvigorire, dopo le recenti sconfitte, le capacità militari del governo di Kabul, favorendo la riconquista di alcune porzioni di terra.

Washington pensa ai minerali afghani
Tuttavia, i dubbi su tale approccio permangono: infatti, anche se questa strategia portasse a delle effettive vittorie belliche, l’annoso problema del consolidamento del controllo sul territorio attraverso un miglioramento delle capacità di governance del Paese, a dir poco claudicanti, permarrebbe.

Ma ciò non sembra interessare al momento l’amministrazione repubblicana che, per ciò che invece concerne un’alternativa politica per raggiungere la pace, si èlimitata a menzionare la necessità di puntare sul settore dei minerali del Paese (che ha sì strabilianti depositi per un trilione di dollari, ma che risulta altrettanto straordinariamente corrotto).

Questa particolare attenzione potrebbe derivare da una vicinanza di Trump alla causa delle industrie minerarie statunitensi, che vedrebbero nell’Afghanistan potenziali margini di guadagno: frenando gli entusiasmi, alcuni commentatori hanno però già fatto notare come prima di affidare ai minerali il futuro di Kabul, bisognerebbe togliere dal controllo degli attori non statali l’80% per cento delle miniere presenti nel territorio.

Nel mezzo di questa evidente incertezza americana, ad aprile la Russia ha indetto una conferenza sul futuro dell’Afghanistan con gli attori regionali interessati, alla quale Stati Uniti, Onu e Unione europea non hanno partecipato. Date le circostanze, non è oggi da escludere che il destino della difficile pace afghana passi per Mosca, che ha iniziato a vedere nei talebani una pedina contro il jihadismo transnazionale e la Nato.

Le sfide all’orizzonte
La popolazione afghana si ritrova oggi intrappolata in una spirale soffocante di estrema insicurezza: dal 2007 ad oggi il Paese si è classificato nei primi tre posti al mondo per numero di attentati terroristici, e se nel 2015 il governo centrale influenzava o controllava il 72% del territorio, oggi tale percentuale si è ridotta al 52%.

Inoltre, da una scissione dei talebani pachistani ed afghani è nata nel 2015 Isis-Khorasan che, seppur contando attorno ai 1.600 elementi (le milizie talebane sono invece 40.000) ed avendo subito pesanti sconfitte negli ultimi mesi, ha dimostrato di saper compiere attacchi brutali sia in territorio afghano sia pakistano.

Questi dati si riflettono nei risultati di approfondite ricerche sulla percezione degli afghani in relazione al loro Paese, le quali nell’ultimo triennio hanno registrato un vertiginoso declino in negativo. Il 65% della popolazione crede che il Paese vada nella direzione sbagliata per tre ragioni, che rispecchiano anche le maggiori sfide dei prossimi anni: la precaria situazione securitaria, l’elevato tasso di disoccupazione ed una corruzione rampante (posizionandosi 169esimo su 175 nel mondo, nella celebre classifica di Transparency International).

Pace: sentiero politico, non solo militare
Le fondamenta della stabilità, ed anche la fiducia dei cittadini nei confronti del governo centrale e delle sue ramificazioni locali, verranno gettate quando si capirà che la soluzione militare è parte di un processo politico ben più ampio.

Bisogna proporre un’iniziativa che includa necessariamente le fazioni talebane meno radicali nel processo di pace, delegittimando quelle più estremiste attraverso il miglioramento delle capacità di governance dello Stato, aumentando la sicurezza, rafforzando il potere giudiziario e diminuendo drasticamente la corruzione - definita causticamente dalla missione Onu in Afghanistan come “l’altro campo di battaglia” del governo di Kabul -, che si riproduce anche a causa dei traffici illeciti d’oppio, la produzione del quale (vitale per il sostentamento quotidiano di molti) ha pure fatto registrare una crescita del 10% nell’ultimo anno.

Ludovico De Angelis studia Relazioni Internazionali ed ha effettuato un tirocinio presso lo IAI ed il Ministero degli Affari Esteri.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=4012#sthash.ywi5aIQ6.dpuf

lunedì 19 giugno 2017

Francia: verso nuovi orizzonti politici

Legislative, primo turno
Francia: Macron pensiona una classe politica
Jean-Pierre Darnis
13/06/2017
 più piccolopiù grande
"La Francia è di ritorno". È così che il primo ministro Edouard Philippe ha commentato la vittoria del partito La République En Marche nel primo turno delle elezioni legislative. Si prevede che, dopo il ballottaggio del 18 giugno, il partito creato un anno fa otterrà più di 400 seggi, conquistando una larghissima maggioranza.

I partiti tradizionali sono stati polverizzati dall’onda nuova. Un’intera classe politica viene mandata in pensione. Il tasso di partecipazione debolissimo, sotto il 50%, contribuisce ad ampliare questo risultato. Mentre il partito di Macron riesce a mantenere i consensi ottenuti al primo turno delle presidenziali, il 23 aprile, gli altri partiti perdono milioni di votanti.

Una forma di consenso tramite l’astensionismo
È come se si fosse creato una forma di consenso passivo attraverso l’astensionismo: anche chi non lo sostiene, non prova nemmeno a contrastare l’onda Macron. Il presidente della Repubblica appare pienamente legittimo e molti oppositori gli vogliono lasciare affrontare la prova del potere, perché, alla fine, sono tutti convinti che la società francese va scossa per uscire dall’immobilismo.

Il fenomeno è così forte che molti non riescono a capacitarsi: ripiangono la destra e la sinistra, puntano il dito contro la poca esperienza dei neo-eletti, mettono in guardia contro i rischi di una maggioranza assoluta così ampia, si augurano persino un “autunno caldo” di mobilitazione delle piazze.

Non riescono a capire che tutto sommato si tratta di una vittoria normale, di proporzioni ad esempio paragonabili a quella delle elezioni del 1993 e che quindi che non crea di per sé un problema. E non riescono a cogliere la volontà di riforme al centro, con spirito trasversale costruttivo, che attraversa l’elettorato francese.

Un presidente bravo e fortunato
Abbiamo già sottolineato la bravura ma anche la fortuna di Macron, che ha saputo trarre beneficio dell’apertura di uno spazio politico nuovo, mentre i vecchi partiti di destra e di sinistra erano inceppati nei loro meccanismi di riproduzione di classi dirigente e di soluzioni trite. Dopo le legislative, Emmanuel Macron potrà contare su una squadra coesa, fra governo e parlamento. E potrà ulteriormente spingere sulle riforme: moralizzazione della vita pubblica, legge sul terrorismo e riforma del mercato del lavoro.

Quest’ultima rappresenta un tassello strategico. Al di là dell’opportunità della flessibilità del mercato del lavoro, Macron ha capito che si tratta di una misura di grande portata a livello internazionale, un punto sul quale Paesi come la Germania giudicheranno l’azione dell’esecutivo francese.

La battaglia per la riforma del mercato del lavoro è ovviamente una battaglia interna, in cui Macron prova a spostare gli equilibri di parti sociali spesso conservatrici. Ma si tratta anche, e magari soprattutto, di una battaglia che deve lanciare la campagna di Macron in Europa. Il presidente ha ben presente che nel contesto globalizzato il riformismo interno non crea effetti se non si inserisce in una dialettica europea.

Principale obiettivo, il dialogo con la Germania
Il suo principale obiettivo è di stabilire un dialogo con la Germania, il che significa potere negoziare una serie di dossier nei quali, a fronte delle novità francesi, la Germania si dimostri pronta a fare evolvere alcune sue posizioni percepite come delle rigidità e dei freni al rilancio economico dell’Europa. Dal ministro dell’economia Bruno Le Maire al consigliere diplomatico della presidenza Philippe Etienne, già ambasciatore a Berlino, la squadra di governo è provvista di solidi esperti che vantano relazioni dirette con Berlino.

Tutto questo per meglio servire l’obiettivo di fare evolvere le posizioni di una Germania restia alle novità. Il calendario è chiaro: Macron vuole adottare la riforma del mercato del lavoro entro fine settembre, in modo tale da potersi presentare con le carte in regola all’appuntamento di ottobre con il nuovo esecutivo tedesco, dopo le elezioni politiche in Germania, e rilanciare il “motore franco tedesco”, cioè l’incontro fondamentale fra posizioni del Nord e Sud Europa.

Una spinta al riformismo e all’integrazione
Da questa intesa rinnovata, potrebbe poi partire una serie di spinte ulteriori al riformismo e all’integrazione europea. Le difficoltà internazionali costituiscono un contesto favorevole per questi mutamenti: la presidenza Trump, la crisi politica del Regno Unito alle prese con la Brexit, senza dimenticare la minaccia terrorista, costituiscono un contesto problematico che spinge a rinnovate convergenze al livello europeo.

Ma va anche sottolineato la dimensione francese di questa dinamica: è da tanto tempo che la Francia non si muoveva con una strategia così chiara e potenzialmente in grado di creare una dinamica al livello europeo.

A breve il chiasso elettorale si placherà e si potrà osservare “La République En Marche” al lavoro. Macron ha gestito con grande abilità le prime mosse del governo Philippe e proseguirà con decisione. La stragrande maggioranza dei francesi si augura un riformismo che possa produrre miglioramenti in termine di crescita, di benessere e soprattutto di riduzione delle fratture sociali.

Esiste, quindi, un consenso riformista a Parigi, un consenso che in poche mosse potrà allargarsi all’Europa intera. Ed è questo il significato del ritorno della Francia. Deve essere capito per quello che è: una possibilità di apertura da parte di una maggioranza politica trasversale e riformista, che va anche colta dai partners europei.

Per l’Italia e gli italiani il rapporto con la Francia è sempre stato complicato, intriso di rivalità storiche e psicologiche. Varrebbe la pena superare queste scorie del passato per considerare con pragmatismo il rinnovato slancio politico parigino e coglierne le opportunità di convergenze sull’agenda europeo. Tutto sommato, una “Europe en Marche” non farebbe male a nessuno, anzi.

Jean Pierre Darnis è Direttore Programma Sicurezza e Difesa IAI.