L’organizzazione
della R.S.I.
I
punti salienti sui quali la voce di Mussolini da Radio Monaco insiste
annunciando la necessità della nascita della Repubblica Sociale Italiana
(R.S.I.) sono vari. Innanzitutto il ritorno al fascismo delle origini, con la
sua netta impronta sociale, che mette in chiaro la lealtà all’alleato tedesco,
sottolineando il tradimento della monarchia e del governo Badoglio, compresi
tutti i sostenitori, a qualunque titolo, lasciando intendere nettamente che gli
Alleati angloamericani continuavano ad essere i nemici. La necessità di lavare
l’onta dell’onore compromesso dall’annuncio dell’armistizio dell’8 settembre,
con la conseguente umiliazione di essere disarmati dall’alleato tradito, i
tedeschi, perché dovevano necessariamente difendersi dal cambio di fronte
ovviamente ritenuto vigliacco. Il bisogno di riscattare i propri territori
occupati sempre dall’alleato tedesco, ma anche dal nemico che stava avanzando
per la penisola, complice il governo Badoglio, che gettava ancor più vergogna
sulle migliaia di soldati caduti. Era necessario, dunque, riprendere le armi a
fianco degli alleati tedeschi e giapponesi, iniziando a ripulire il Paese. A
cominciare dai primi veri traditori, i membri del Gran Consiglio del Fascismo,
che avevano dichiarato deposto il loro Duce il 25 luglio 1943. L’obiettivo era
chiaro: solo il sangue poteva cancellare il disonore. Bisognava poi
riorganizzare le Forze Armate e la Milizia. Il nuovo governo nacque, così, il
23 settembre, termine ultimo dato dal plenipotenziario Rahn per emettere il
comunicato con la lista dei ministri. La prima riunione del nuovo Consiglio dei
Ministri ebbe luogo alla Rocca delle Caminate il 27 settembre, in quella
residenza estiva di Mussolini alla quale da subito avrebbe voluto tornare. La
riunione non fu facile, dal momento che era chiaro a tutti quanto fosse
impossibile per la nuova Repubblica muovere i suoi passi. Impossibile spostarne
la capitale a Roma, dal momento che l’avanzata angloamericana era abbastanza
rapida e i tedeschi volevano sedi lontane dal confine e prossime, invece, al
confine con i propri territori. Inesistente l’esercito, la struttura
amministrativa, i finanziamenti. Era necessario iniziare tutto da capo, quindi
venne scelta una sede sul lago di Garda dove Mussolini decise di risiedere.
Precisamente prende alloggio a Villa Feltrinelli, a Gargnano, dove arriva il 10
ottobre; gli uffici di Presidenza vengono posti poco distante, alla villa delle
suore Orsoline, mentre le sedi dei ministeri e dei vari uffici vengono sparse
un po’ ovunque: a Salò, a Brescia, a Lonato. A Salò prese sede l’Agenzia
Stefani che si occupava di diramare i comunicati alla stampa e proprio perché
l’Agenzia inoltrava i dispacci da Salò, la Repubblica Sociale venne
soprannominata Repubblica di Salò, o repubblichina per i detrattori. L’adesione
alla R.S.I. da parte di alcuni fu entusiastica e immediata. Coloro che erano
fascisti convinti, altrettanto convintamente aderirono alla neonata
organizzazione per riscattare l’orgoglio italiano ferito dalla vigliaccata che
era stata compiuta dal governo e dal Re, perché tale veniva vissuta. I
funzionari che entrarono a far parte della struttura organizzativa furono circa
14mila, tra convinti del regime, coloro che svolgevano un regolare buon lavoro,
chi temeva di perdere prerogative di carriera e chi, invece, temeva
rappresaglie politiche, piuttosto che di finire chissà come in mano ai nazisti
o agli angloamericani. La scelta non fu facile perché, al di là di coloro che
professavano convinte idee fasciste, l’imminente arrivo proprio degli
angloamericani prometteva la fine della guerra e miglioramenti almeno nella
situazione precaria quotidiana. Tra chi reclutava persone per il Nord c’era
Almirante che spiegava le ragioni della R.S.I. e la necessità di vincere, in un
clima che ricordava molto i raduni entusiastici da Marcia su Roma o di poco prima
della guerra. Nel frattempo, rinasce anche il partito che diventa Partito
Fascista Repubblicano, con la riapertura delle Federazioni un po’ in tutte le
città dove il partito fascista era andato scomparendo una volta dichiarato
fuori legge dal governo Badoglio. Ben presto proprio dalle Federazioni e da
alti rappresentanti del Partito si alzano le lamentele verso gli aderenti alle
fila che non erano più selezionati tra la migliore gioventù o tra i migliori
militanti convinti, ma riunivano accozzaglie di personaggi più attirati dalle
idee di rivalsa e violenza che da alte idee politiche o di riscatto nazionale.
L’attività febbrile portò alla costituzione del primo Congresso che si tenne
nelle sale di Castelvecchio a Verona il 14 novembre, conclusosi con la
ratificazione ufficiale della nascita della Repubblica Sociale Italiana e di un
manifesto programmatico che aveva questo esordio:
“Il primo rapporto nazionale del Partito
fascista repubblicano: leva il pensiero ai Caduti del Fascismo repubblicano,
sui fronti di guerra, nelle piazze delle città e dei borghi, nelle foibe
dell’Istria e della Dalmazia che si aggiungono alle schiere dei Martiri della
Rivoluzione, alla falange di tutti i morti per l’Italia; addita nella
continuazione della guerra a fianco della Germania e del Giappone fino alla
vittoria finale e nella rapida ricostruzione delle Forze armate destinate ad
operare accanto ai valorosi soldati del Führer, le mete che sovrastano
qualunque altra di importanza ed urgenza; prende atto che i decreti del Partito
porteranno intransigente volontà ed esemplare giustizia e, ispirandosi alle
fonti e alle realizzazioni mussoliniane, enuncia le seguenti direttive
programmatiche per l’azione del Partito”. Oltre alla costituzione della
Repubblica Sociale, in politica estera si doveva operare per eliminare i
secolari intrighi britannici dal continente, abolendo il sistema capitalistico
interno.
Le
difficoltà furono da subito evidenti: all’interno del Partito, e di conseguenza
della neonata Repubblica, le correnti erano discordi su molti punti
programmatico-organizzativi, tra i quali la Costituente, di conseguenza non era
semplice portare avanti quello che doveva essere un vero e proprio governo. Dal
canto loro i tedeschi, pur se molti dei gerarchi non vedevano di buon occhio la
Repubblica, di certo erano sollevati dal fatto di non dover organizzare i
territori italiani. Anche all’interno della gerarchia tedesca vi erano varie
fazioni e vari punti di vista, spesso in contrasto tra loro, e se è appunto
vero che usavano l’idea di R.S.I. come mezzo organizzativo territoriale, allo
stesso tempo non mancavano di reclutare personale volontario per le loro forze,
soprattutto proprio tra chi vedeva il tradimento italiano come sbagliato nei
confronti di un alleato così fedele da fare liberare il Duce. Pertanto alcuni
italiani si arruolarono volontari nelle SS italiane, costituendo una forza
ausiliaria di appoggio all’alleato nazista. Lo scopo tedesco era quello di
utilizzare gli italiani volontari nelle loro fila per liberare le forze
tedesche che, così, potevano impegnare il nemico diversamente. Ad esempio, gli
italiani potevano tenere in scacco gli Alleati lungo le coste per permettere
azioni in profondità che avrebbero, se non altro, rallentato l’avanzata nemica
sul suolo italiano. Tali erano, infatti, le direttive dell’Oberkommando della
Wehrmacht italiana. Altra organizzazione che arruolava molti italiani era la Todt
per utilizzarli come forza lavoro, sia in Italia che in Germania dove molti
vennero inviati. A questo punto, se l’idea originale di Mussolini era quella di
ricostituire un esercito intorno alla rinata Milizia, le cose divennero
difficili, tanto da portare alla sofferta scelta di affidare la
riorganizzazione dell’esercito a Rodolfo Graziani, poco amato da Mussolini
stesso, ma unico con sufficiente esperienza. Graziani riunì in sé il Ministero
dell’Esercito, il Ministero della Marina e il Ministero dell’Aeronautica,
chiamandolo prima Ministero della Difesa e poi Ministero delle Forze Armate.
Sembra a questo punto che le mosse principali fossero volte a costituire una
struttura organizzativo-politica, più che a pensare ad organizzare la vita
degli italiani. Per ottenere il necessario permesso tedesco, Graziani si
adoperò per convincere gli ufficiali ad entrare nell’esercito repubblicano e
organizzarlo. Per farlo, cominciò ad aumentare gli stipendi, che passarono a
circa 20mila lire al mese per un generale; circa 12mila lire al mese per un
colonnello; circa 6mila lire per un capitano. Stipendi faraonici, se si pensa
che un impiegato percepiva meno di 2mila lire mensili. Pertanto furono in molti
gli ufficiali che risposero positivamente alla chiamata, raggiungendo la cifra
di 12mila solo a Roma, circa 60mila in totale. Non essendo tutti necessari,
verranno tenuti a disposizione.
Il 9 ottobre 1943 era programmato un incontro
tra Hitler e Graziani. Nel promemoria per Graziani, i punti da discutere erano
tanti. Soprattutto se il governo tedesco intendesse trattare l’Italia come
territorio occupato o ristabilirne al più presto l’indipendenza politica, con i
relativi rapporti di alleanza. Nel caso il governo del Reich volesse lasciare
l’indipendenza all’Italia, essa doveva avere libertà d’azione, di comunicazione
e di trasmissione agli organi politici e militari del governo italiano,
altrimenti sarebbe stato impossibile assolvere alle proprie funzioni. Bisognava
poi determinare un territorio di guerra in cui le autorità politiche italiane
avessero facoltà di azione completa. L’armamento da adottare avrebbe dovuto
essere quello tedesco, visto che le condizioni dell’Italia non permettevano di
certo approvvigionamenti. Sarebbe dovuto poi essere organizzato un periodo di
addestramento alle armi tedesche, dato che erano di diversa dotazione rispetto
alle italiane.
Lo
scopo di Graziani, discusso in Germania con Hitler e i suoi luogotenenti, era
di costituire 25 divisioni complete di servizi e complementi, per un totale di
circa mezzo milione di uomini, ma gli alleati concessero la creazione di un
esercito da 12 divisioni, mentre il capo di Stato Maggiore dell’esercito
germanico, il feldmaresciallo Keitel, affermava che soltanto un esercito
italiano inesistente non avrebbe tradito i tedeschi, ad indicare la chiara
percezione che poteva avere degli italiani, soprattutto organizzati nuovamente
in una struttura militare. Le prime quattro divisioni italiane si sarebbero
addestrate in Germania, nei campi di Müsingen, Sennelager, Grafenwöhr, Heuberg,
al comando degli IMI, cioè dei militari presi prigionieri dai tedeschi
all’indomani dell’8 settembre, ma che avevano nel frattempo scelto di aderire
alla R.S.I., sia ufficiali che sottufficiali, con personale di leva di nuove
classi in Italia (quelle del 1924/1925, oltre al personale del 1923 in congedo
provvisorio). Il 27 ottobre, il Consiglio dei Ministri della R.S.I. approvava
lo scioglimento delle vecchie forze armate regie e una nuova legge che
approvava le forze armate nuove. Data la discussione inerente lo scioglimento
della Milizia, si giungerà all’accordo di costituire la Guardia Nazionale
Repubblicana (Gnr) composta dagli aderenti alla vecchia Milizia, dai
Carabinieri e dalla polizia d’Africa italiana. La Gnr avrebbe avuto compiti di polizia
militare e polizia interna, compresa la lotta alla Resistenza. L’annuncio della
nascita della nuova Guardia venne dato il 27 novembre e ufficializzato l’8
dicembre 1943. Gli aderenti iniziali, entusiastici, furono molti, in modo
particolare per dimostrare ai tedeschi che non era colpa di tutti gli italiani
quanto era accaduto, ma c’erano le forze italiane desiderose di riscattare lo
sbaglio di alcuni. Anche dal Ministero della Cultura popolare i toni erano i
medesimi: doveva essere messo in risalto l’onore italiano nei confronti di
quell’alleato tradito che ora, è bene ricordarlo, occupava il suolo italiano
per buona parte e non con blande intenzioni. In nome dei morti e dei mutilati,
si doveva lottare per la Patria e riscattarne l’onore. Gli studenti dovevano
lasciare ogni loro interesse per correre a salvare la Patria in quel momento di
assoluto bisogno, di assoluto disonore. Pertanto, anche quel genere di discorsi
altisonanti comportavano, negli anni di preparazione della gioventù italiana
alla lotta, adesioni rapide ad una compagine che dava garanzie di sapere come
agire di fronte a giorni in cui i fatti non erano stati per niente chiari. Si
leggeva sui manifesti: “Il nostro
glorioso Esercito è stato ricostituito. Il bel grigio verde che avete indossato
in cento battaglie dalle steppe russe al deserto libico egiziano, vi attende.
Riavrete distintivi e insegne ben noti e cari alla memoria di tutti i vecchi
combattenti e, con le stesse bandiere per le quali i vostri padri non
risparmiarono la vita, riporterete la Patria sulla via della salvezza e
dell’onore”. Lo stesso Ministero, sotto le direttive di Giorgio Almirante,
diffonde cartoline e volantini pubblicitari per inneggiare al dovere di
riprendere le armi a fianco dell’alleato tedesco.
Accanto
ai manifesti, l’azione incisiva della propaganda cinematografica riprende.
Infatti, i cinegiornali e i lungometraggi dell’Istituto Luce mettono in
evidenza l’arruolamento sotto il fascio littorio ancora, l’accorrere della
migliore gioventù nella Gnr o nell’esercito. Ricompaiono i cari simboli del
teschio, dei fasci e delle fiamme nere, a indicare la continuità proposta,
dispetto alla rottura badogliana, dalla R.S.I.
In
“Brescia repubblicana” del 24 novembre 1943, si legge che anche i podestà, i
sacerdoti e i funzionari pubblici si dovevano mobilitare per la buona riuscita
dell’arruolamento, anche perché alcune circolari sancivano chiaramente che, in
caso di mancata presentazione dei chiamati alla leva obbligatoria, i
provvedimenti sarebbero stati presi proprio a carico dei podestà e dei capi
famiglia. Alcuni casi si ebbero subito, a monito, con arresto dei capi famiglia
e il ritiro delle tessere annonarie per l’acquisto dei beni di prima necessità.
Si aggiunsero provvedimenti ancora più severi, come il ritiro della licenza di
esercizio alla famiglia dei renitenti, il divieto di uccidere i maiali, la
sospensione dall’impiego, eccetera.
Il
Prefetto di Brescia scriveva: “[…] la costituzione del nuovo Esercito italiano […]
dovrà riscattare l’onore perduto col tradimento dell’8 settembre. Ogni italiano
che ami veramente la Patria non può non volere che le nostre bandiere ritornino
a sventolare alla testa dei suoi reggimenti. Si impone da parte di ognuno di
noi il dovere di svolgere la più assidua e appassionata attività perché
nell’animo dei nostri giovani si riaccenda, ove occorra, il sentimento del
dovere: il dovere di impugnare le armi per ricacciare, al fianco dei valorosi
alleati germanici il nemico invasore del sacro suolo della Patria. Quel nemico
che dal cielo distrugge le nostre città, uccide le nostre donne, i nostri
vecchi, i nostri bambini”. I risultati furono soddisfacenti, pur essendo molti
i giovani che non si presentavano affatto all’ufficio di leva, oppure orientati
alla Gnr, alla Todt, alle SS. Se la chiamata alle armi riguardava 186mila
uomini, nel gennaio del 1944 se ne erano presentati 87mila, dimostrando da
subito l’inadeguatezza della macchina organizzativa. Ottenuto il discreto
risultato di arrivo degli uomini, infatti, non si sapeva dove metterli e come
gestirli. Mancavano le caserme, le armi, gli equipaggiamenti, rendendo
l’adesione un immediato pentimento, mentre dove le condizioni di trattamento
erano migliori, l’adesione divenne più entusiastica ancora. Il 16 gennaio 1944,
Mussolini tolse l’idea di apoliticità delle forze armate, imponendo il saluto
romano anche all’esercito e che le stellette venissero tolte, in quanto ricordo
della monarchia. Avrebbero dovuto essere sostituite con il gladio romano. Il 9
febbraio venne imposto a tutte le reclute il giuramento di fedeltà alla R.S.I.,
per frenare il dilagare del bolscevismo, come ebbe ad affermare Graziani.
Sempre ai primi di febbraio, data la scarsa adesione, venne emanato un nuovo
bando per le classi 1922, 1923 e primo quadrimestre 1924. Per frenare la
renitenza alla leva, il 18 febbraio 1944 venne emanato il tristemente famoso
“Bando Graziani”, secondo il quale renitenti e disertori sarebbero stati
condannati a morte per fucilazione, così come i renitenti del precedente bando
avrebbero avuto 15 giorni di tempo per regolarizzarsi prima di incorrere nella
medesima pena. I risultati del Bando furono immediati e felici per gli intenti
repubblicani, ai fini dell’arruolamento: ad esempio, nelle province di Brescia
e Bergamo soltanto l’1,6 per cento dei richiamati non si presentò al Distretto
Militare.
Nel
frattempo, la R.S.I. era stata riconosciuta dalla Germania e dal Giappone, che
avevano indotto al riconoscimento Bulgaria, Croazia, Romania, Slovacchia,
Ungheria, Cina, Thailandia. Ufficiosamente iniziarono relazioni diplomatiche
con Argentina, Portogallo, Spagna, Svizzera e Vaticano, mentre la Francia di
Vichy e la Finlandia non la riconobbero. Mussolini in quei mesi era occupato
nel tentativo di indire una Costituente, come già affermato nel programma
politico di Verona, che avrebbe dovuto vedere la delegittimazione del Re, con
la fine della monarchia e il riconoscimento della Repubblica Sociale messi in
atto addirittura dal Parlamento. In sostanza, la Camera dei Fasci e delle
Corporazioni avrebbe dovuto autoconvocarsi, ritenendo illegittimo il
provvedimento di scioglimento proclamato dal governo Badoglio che sarebbe stato
considerato un colpo di stato, messo in atto addirittura arrestando dei membri
della Camera stessa prima del colpo di stato e prima del suo scioglimento,
quando gli stessi membri godevano dell’immunità diplomatica. Insomma, un comportamento
illegittimo sotto tutti i punti di vista, ma altrettanto impossibile sarebbe
stato il sogno di Mussolini, dal momento che il Parlamento sarebbe dovuto
essere costituito da un Senato che non esisteva e che, per sistemare le cose,
avrebbe dovuto dichiarare la legittimità della neonata Repubblica. Forse del
tempo perso, che comunque portò Mussolini a un ruolo ancor meno significativo
del previsto nel suo nuovo governo, interlocutore dei tedeschi. I quali, nel
frattempo, avevano messo in atto in Italia la loro politica repressiva, non
soltanto l’azione bellica contro il nemico che, pur se a volte lentamente,
continuava ad avanzare.
Nemico
costituito dagli angloamericani che, dal canto loro, avevano comunque sperato
nell’apporto dell’esercito italiano contro la Germania. Pensavano inizialmente,
cioè, che con l’armistizio dell’8 settembre le forze armate italiane davvero si
rendessero conto che la situazione era cambiata e che, per ordini o per scelta,
si sarebbero schierate con loro per rendere la fine della guerra la più celere
possibile. Se, con la voce del comando dell’esercito tedesco, al 10 settembre
1943 l’esercito italiano non esisteva più, e risultava assolutamente evidente
che l’Italia fosse il ventre molle dell’Asse Roma Berlino, allora con la stabilizzazione
del fronte a Cassino, il fronte italiano diventava sempre meno importante,
lasciando tempo e forze organizzative al settore ben più interessante della
Francia, con quello che sarà lo sbarco in Normandia. Pertanto il territorio
italiano diventava sempre meno basilare, lasciando che le operazioni militari
fossero nulla più di una guerra di logoramento, condotta via via con forze
ridotte per il trasferimento in Francia dei reparti: impegnare i tedeschi sul
fronte italiano sarebbe stato agevole e strategicamente determinante, affinché
l’altro fronte fosse la sorpresa definitiva al Reich. Il peso politico maggiore
sull’Italia lo avevano gli inglesi capeggiati da Churchill, i quali erano
maggiormente a conoscenza della situazione italiana e avevano maggior peso
politico sull’Italia, verso la quale gli americani non avevano una vera e
propria politica. Pertanto lasciavano fare agli alleati che non avevano grande
fiducia nei quadri italiani sia ufficiali, dato il comportamento dopo
Cassibile, sia partigiani che spesso venivano considerati poco controllabili.
Inoltre, la situazione in Grecia si stava facendo complessa e pertanto
prevaleva il punto di vista di Churchill. Il quale non aveva certo dimenticato
la necessità di punire l’Italia, sia per essere entrata in guerra contro la
Gran Bretagna in un momento così difficile come il 1940, sia perché proprio
l’Italia aveva messo in scacco l’egemonia britannica nel Mediterraneo,
uscendone perdente. L’Italia, quindi, avrebbe dovuto conquistarsi e meritarsi
pezzo per pezzo la sua libertà, dato che se una nazione si sottomette ad un
regime tirannico, non può essere assolta dalle colpe di cui il regime si è reso
colpevole, come affermò Churchill nell’agosto del 1944. Pertanto, dato che
nell’agosto del 1944 Roma era già stata liberata, il primo ministro britannico
riteneva impossibile passare dallo status di cobelligerante contro i tedeschi
(ottenuto con l’armistizio del 1943) ad un trattato di pace. Infatti, gli
Alleati non avevano alcun bisogno dell’Italia per concludere le operazioni
militari nel Paese e il popolo italiano liberato non era sufficientemente
rappresentativo di tutta quella parte di italiani ancora in mano ai tedeschi
nel Centro-Nord.
Comm. Alessia
Biasiolo
Bibliografia
essenziale
Mario
Avagliano, Marco Palmieri: “L’Italia di Salò”, il Mulino, Bologna, 2017
Giorgio
Bocca: “La repubblica di Mussolini”, Mondadori, Milano, 1997
Frederick
William Deakin: “Storia della Repubblica di Salò”, Einaudi, Torino, 1970
Renzo
De Felice: “Mussolini l’alleato”, Einaudi, Torino, 1997
“Il
Manifesto di Verona”, 14 novembre 1943
Arrigo
Petacco, Sergio Zavoli: “Dal Gran Consiglio al Gran Sasso”, Mondadori, 2013