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mercoledì 28 giugno 2017

Una prospettiva per chi vuole impegnarsi


Lotta all’iconoclastia
L’Italia e i caschi blu della cultura
Paolo Foradori
28/06/2017
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La distruzione della Grande Moschea di al-Nuri a Mosul, dove Al Baghdadi aveva annunciato nel 2014 la nascita del Califfato, è solo l’ultimo episodio dell’attacco sistematico e deliberato al patrimonio culturale della Mesopotamia, la ‘culla della civiltà’.

In risposta alla furia iconoclasta del sedicente Stato islamico, l’Isis, la comunità internazionale si è mobilitata per mettere in campo nuovi e più efficaci strumenti per rafforzare il regime internazionale di protezione del patrimonio culturale. Particolarmente rilevante è il progetto, fortemente voluto dall’Italia, di istituire i Caschi Blu della Cultura, una componente culturale da integrare nelle operazioni di supporto alla pace e alla sicurezza internazionale.

Lotta di potere e damnatio memoriae
Sebbene la storia dell’iconoclastia si perda nella notte dei tempi, il fenomeno si è intensificato negli ultimi decenni come risultato del mutamento della natura e delle modalità di conduzione delle ‘nuove guerre’ che proliferano nel contesto internazionale post-guerra fredda.

Il tema dell’identità è al centro di questi conflitti e la dimensione dell’appartenenza etnica o religiosa è fondamentale nel definire le ragioni e gli obiettivi dei combattimenti. Se la cultura è la visualizzazionedell’identità, non sorprende allora che il patrimonio culturale sia diventato l’obiettivo diretto e deliberato di molte delle guerre recenti, dai Balcani alla Cambogia, dall’Iraq all’Afghanistan, dal Mali alla Siria, dalla Libia allo Yemen.

L’iconoclastia dell’Isis non è vandalismo cieco e irrazionale, ma risponde ad una precisa e sofisticata strategia che il gruppo terroristico persegue nell’intento di creare, consolidare ed espandere il proprio potere, anche ai fini della jihad globale.

Questo obiettivo può essere raggiunto affermando la propria ideologia radicale (anche religiosa) ed imponendo una dominazione assoluta sulla popolazione del territorio di volta in volta conquistato, compreso il contesto culturale e sociale in cui tale popolazione vive.

La strategia è annientare fisicamente e culturalmente una comunità aliena o ostile, soggiogando i sopravvissuti dopo averli privati delle loro identità individuali e collettive. Si vuole sottrarre a una comunità il passato eliminando i simboli della sua cultura per negarle anche il futuro. La strategia è quella della damnatio memoriae: obliterando il passato, l’Isis vuole resettare o riscrivere la storia da un nuovo inizio o ‘anno zero’, a partire dal quale solo la propria visione del modo ha diritto di esistere.

Il peacekeeping culturale
La protezione del patrimonio culturale, nelle parole del direttore generale dell’Unesco Irina Bokova, è ‘non solo un’emergenza culturale, ma anche una necessità politica e di sicurezza’. Rispondendo all’appello dell’Onu, l’Italia ha assunto una forte leadership mondiale per mobilitare e coordinare gli sforzi della comunità internazionale.

Su proposta italiana, nel 2015 l’Unesco ha approvato una risoluzione per ‘rafforzare la protezione della cultura e la promozione del pluralismo culturale in caso di conflitto armato’. Tale risoluzione comprende una strategia che si basa su due elementi fondamentali: 1) l’incorporazione di una componente culturale nelle attività di peacekeeping; 2) la creazione di task force nazionali specificatamente dedicate alla salvaguardia del patrimonio culturale.

In meno di un anno, il 16 febbraio del 2016, si è arrivati alla firma di un accordo tra Unesco e governo italiano per la formazione della prima task force nazionale denominata ‘Unite4 Heritage’. Il recente G7 della Cultura di Firenze ha ribadito il ruolo distintivo della cultura come strumento di dialogo tra i popoli e la necessità di un mandato culturale nelle missioni di sicurezza e di mantenimento della pace. Infine, il 24 marzo 2017, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha approvato una risoluzione italo-francese (2437) che prevede il possibile impiego di una componente culturale nelle missioni di peacekeeping.

In attesa di un accordo operativo che precisi obiettivi e modalità di intervento, la task force italiana è stata istituita e testata con successo nelle zone terremotate del centro Italia, dove ha messo in sicurezza migliaia di opere d’arte. Il contributo più rilevante alla forza d’intervento è dato dal Comando dei Carabinieri per la Tutela del Patrimonio culturale, internazionalmente riconosciuto come la più efficace polizia al mondo nella protezione del patrimonio artistico. Al suo fianco opera una componente civile costituita da archeologi, restauratori e storici dell’arte del Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo.

Solo l’effettivo schieramento sul campo della task force dirà se l’iniziativa promossa dall’Italia risulterà efficace. Tra aspettative e opportunità, il peacekeeping culturale si apre infatti a scenari incerti e densi di pericoli e ‘conseguenze inattese’.

Nel frattempo, va apprezzato e sostenuto il grande impegno e attivismo italiano. Lo slogan, a volte abusato, di Italia ‘superpotenza culturale’ in questo caso ben descrive l’eccellenza e la leadership del Paese nel contrastare la barbarie e l’oscurantismo di chi vuole distruggere i simboli dell’arte, della cultura e della civiltà.

Paolo Foradori è Professore associato di Scienza politica presso la Scuola di Studi Internazionali dell’Università di Trento.

Riflessioni sulle elezioni francesi

Lezioni francesi
Il collegio uninominale in epoca post-ideologica
Alessandro Miglioli
26/06/2017
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Le elezioni politiche francesi si sono concluse consegnando al Paese uno scenario inimmaginabile fino a quaranta giorni or sono. La République en Marche!, Il partito del recentemente eletto presidente Emmanuel Macron, ha riportato una vittoria per cui la locuzione “a valanga” risulta quanto mai letterale.

All’indomani del primo turno l’11 giugno, le proiezioni davano a Macron circa il 70% dei seggi e, nonostante il secondo turno il 18 giugno gli abbia poi consegnato una maggioranza più contenuta (di poco superiore al 60%), il risultato del nuovo movimento centrista rimane impressionante.

Per capire quanto questo evento fosse inatteso, basti pensare che all’indomani delle elezioni presidenziali del 7 maggio gli analisti francesi si interrogavano su quale partito sarebbe stato cercato da Macron come alleato di governo, perché il mancato conseguimento di una maggioranza parlamentare veniva quasi dato per scontato.

Punti di forza e di debolezza
Gli stessi analisti oggi si interrogano sulle ragioni politiche del successo di Macron, sui suoi punti di forza e su quelli di debolezza dei suoi avversari. Nel compiere questa azione, però, complice forse il fatto di essere troppo inseriti nel contesto francese, o ad esso abituati, dimenticano di osservare la reale causa di questo exploit: il sistema elettorale francese stesso, basato sui collegi uninominali.

Un collegio uninominale è, sostanzialmente, una piccola area geografica, nella quale si svolge una competizione elettorale fra vari candidati per un singolo posto da parlamentare. Chi ottiene più voti ha il posto; tutti gli altri, indipendentemente dalle loro percentuali, non sono eletti.

Nonostante una strategia assolutamente vincente, infatti, Macron non ha ottenuto che il 32% dei voti espressi al primo turno, quello in cui tutti i partiti sono presenti. Ancora una volta, certamente un risultato positivo, ma ben lontano dal 61% dei seggi parlamentari conquistati dal suo partito, specialmente considerando che la partecipazione alle elezioni ha fatto registrare un record in negativo, con ben il 51% degli astenuti.

Francia e Regno Unito a confronto
I collegi uninominali però, non possono da soli spiegare questo risultato. Un perfetto metro di paragone sono le elezioni britanniche, avvenute giusto tre giorni prima di quelle francesi.

Al di là della Manica infatti, dove vige un sistema elettorale non dissimile, basato anch’esso sui collegi uninominali, il partito di Theresa May ha fallito l’obiettivo del 50% dei seggi parlamentari, pur riportando una percentuale di voti ben più alta (42,2%) del partito di Macron.

Qual è dunque la differenza fra i due casi in esame? In una parola, l’omogeneità del corpo elettorale francese.

Se nel Regno Unito abbiamo infatti aree rurali a vocazione conservatrice, grandi metropoli fortemente progressiste e ampie aree abitate da minoranze etniche dall’identità politica ben definita, in Francia, pur sussistendo differenze storiche fra un ovest più di sinistra ed un est più di destra, nessun partito può più contare sul controllo esclusivo di zone con maggioranze definite.

Il 42% della May era concentrato in relativamente poche constituencies, con maggioranze assolute, il 32% di Macron invece ha reso possibile, in uno stato con spinte identitarie decisamente più contenute, l’ottenimento di una semplice maggioranza relativa nella stragrande parte dei collegi, comunque sufficiente a vedere i suoi parlamentari eletti.

La situazione italiana
Visto il ritorno in auge, nell’ultimo periodo, dell’infinito discorso su una nuova legge elettorale, forse anche noi italiani possiamo apprendere qualcosa da questo confronto sincronico.

Nonostante i partiti italiani abbiano potuto storicamente godere di zone “a controllo esclusivo”, simili in qualche misura a quelle esistenti in Gran Bretagna, la tendenza da parte delle forze politiche negli ultimi anni è quella di cercare un’immagine il più ecumenica possibile.

Il centrodestra berlusconiano ha costruito la sua fortuna, dalla discesa in campo nel ‘94, sul corteggiamento dell’italianomedio; il centrosinistra negli ultimi anni ha abbracciato posizioni sempre più moderate, nel tentativo di conquistare consensi trasversali, a parziale discapito del suo controllo delle regioni rosse; la Lega ha ormai da anni abbandonato la sua vocazione originaria di partito etnico-regionale; ed il M5S basa gran parte della sua opera di convincimento e propaganda sul web, luogo per definizione staccato dalle particolarità geografiche.

Una transizione da ‘britannica’ a ‘francese’
La politica italiana sembra dunque trovarsi in una fase di transizione da una situazione simile a quella britannica verso una più “alla francese”. Se accettiamo l’assunto che, al netto delle preferenze personali per questo o quel partito, la possibile assegnazione del 61% dei seggi ad un partito che abbia conseguito il 32% dei voti è un evento indesiderabile in democrazia, forse dovremo allora interrogarci sulla bontà di questo sistema.

A questo fatto va aggiunta la considerazione che, in uno stato in cui il voto di scambio è sovente, e tristemente, all’ordine del giorno, la creazione di piccole aree facilmente trasformabili in ‘feudi’ dal politico di turno, potrebbe diventare un rischio per lo stesso funzionamento democratico delle elezioni, prima ancora che per il risultato delle stesse.

Il fallimento parlamentare degli ultimi giorni ha riguardato una legge elettorale con collegi uninominali alla tedesca, ulteriore meccanismo che tramite un combinato disposto di sistema maggioritario e proporzionale avrebbe notevolmente mitigato i possibili effetti di sovra-rappresentazione. Questa poteva essere forse una via più ragionevole, ma l’intesa per la sua realizzazione pare ormai definitivamente tramontata.

I governi monocolore non rappresentano intrinsecamente un rischio per la democrazia, ma la loro legittimità si dovrebbe basare su un ampio consenso elettorale. Il sistema dei collegi uninominali, in Francia, ha ampiamente dimostrato di non potere garantire questa legittimità.

Alessandro Miglioli è laureato all'Università di Bologna in sviluppo e cooperazione internazionale.

mercoledì 21 giugno 2017

McMaster prevale nella strategia Usa

Incremento truppe Usa
Afghanistan: la strategia opaca di Trump 
Ludovico De Angelis
19/06/2017
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Dopo più di 15 anni dall’invasione statunitense, l’Afghanistan è ancora un cumulo di macerie, mentre Donald Trump pensa a un incremento di circa 4000 nuove truppe Usa nel Paese.

Nella capitale Kabul, recentemente, uno degli attentati più brutali compiuti dall’inizio dell’operazione Enduring Freedom ha causato 85 morti ed oltre 400 feriti, palesando per l’ennesima volta la vulnerabilità disarmante del governo centrale nei confronti degli insorti. Nonostante il principale portavoce talebano abbia smentito il coinvolgimento del gruppo, si crede che dietro l’atto brutale possa trovarsi l’influente rete Haqqani, alleato storico dei talebani oggi guidati da Hibatullah Akhundzada.

Avvolto in una coltre di insicurezza endemica, l’Afghanistan è oggi in cima alla classifica dei luoghi più pericolosi del globo, emblema di una situazione securitaria volatile ed imprevedibile a cui anche il terzo presidente statunitense da quando è iniziata la missione è chiamato a dare una risposta.

Più truppe dopo la Moab
A fronte di tale macabra realtà, l’amministrazione Trump ha recentemente vociferato un aumento di alcune migliaia di unità presenti sul territorio, annuendo anche ad un aumento delle truppe di stanza nel Paese degli una volta vituperati alleati della Nato.Tale strategia, che ha già ricevuto alcune critiche in Afghanistan, è considerata figlia del consulente per la sicurezza nazionale del presidente, il generale McMaster, uomo che rappresenterebbe la crescente influenza del Pentagono nel processo decisionale della politica estera di Washington.

Al momento, però, ci troviamo in una fase di stallo: difatti, all’interno del gabinetto di guerra di Trump, sussisterebbero ancora delle divisioni tra militari ed apparato civile, con il controverso Steve Bannon - il capo stratega della Casa Bianca simbolo delle pretese di quest’ultima fazione - che avrebbe manifestato delle perplessità in merito ad un incremento di truppe americane, nel timore che tale iniziativa possa comportare un logorante ed impegnativo esercizio di state-building, storico spauracchio dei conservatori Usa.

Dall’inizio dell’era Trump, l’unico sussulto dell’interesse statunitense per l’Afghanistan è stato rappresentato dal lancio della madre di tutte le bombe, la Moab, il 13 aprile nel distretto est di Achin, con l’obiettivo di distruggere un tunnel utilizzato dal sedicente Stato islamico del Khorasan, il gruppo jihadista di ex talebani che hanno aderito al Califfato. L’ordigno, che ha avuto lo scopo di flettere i muscoli della potenza militare americana, ha inviato un deciso messaggio ai governi di tutto il mondo.

Tuttavia, la GBU-43 – l’ordigno non nucleare più potente presente nell’arsenale Usa - non ha offerto una soluzione fattibile, solida e duratura ai quasi quarant’anni di instabilità del Paese, riportandoci semmai dritti al fulcro della questione afghana contemporanea: ovvero, che la pace nel “cimitero degli imperi” non potrà essere raggiunta esclusivamente militarmente, ma dovrà principalmente passare per uno sforzo politico di riconciliazione su scala nazionale. Un’impresa attualmente considerata mastodontica.

Se l’obiettivo dell’aumento delle truppe è quello di portare i talebani al tavolo dei negoziati, infatti, sappiamo già che lo stesso Barack Obama fallì in una tale avventura durante gli anni della surge (2009-2012), periodo in cui le forze presenti sul territorio afghano aumentarono sino a raggiungere circa 100.000 combattenti.

Per tale ragione, lo sparuto incremento di unità voluto da Trump sembrerebbe essere giustificato più che altro dalla volontà e dalla necessità di rinvigorire, dopo le recenti sconfitte, le capacità militari del governo di Kabul, favorendo la riconquista di alcune porzioni di terra.

Washington pensa ai minerali afghani
Tuttavia, i dubbi su tale approccio permangono: infatti, anche se questa strategia portasse a delle effettive vittorie belliche, l’annoso problema del consolidamento del controllo sul territorio attraverso un miglioramento delle capacità di governance del Paese, a dir poco claudicanti, permarrebbe.

Ma ciò non sembra interessare al momento l’amministrazione repubblicana che, per ciò che invece concerne un’alternativa politica per raggiungere la pace, si èlimitata a menzionare la necessità di puntare sul settore dei minerali del Paese (che ha sì strabilianti depositi per un trilione di dollari, ma che risulta altrettanto straordinariamente corrotto).

Questa particolare attenzione potrebbe derivare da una vicinanza di Trump alla causa delle industrie minerarie statunitensi, che vedrebbero nell’Afghanistan potenziali margini di guadagno: frenando gli entusiasmi, alcuni commentatori hanno però già fatto notare come prima di affidare ai minerali il futuro di Kabul, bisognerebbe togliere dal controllo degli attori non statali l’80% per cento delle miniere presenti nel territorio.

Nel mezzo di questa evidente incertezza americana, ad aprile la Russia ha indetto una conferenza sul futuro dell’Afghanistan con gli attori regionali interessati, alla quale Stati Uniti, Onu e Unione europea non hanno partecipato. Date le circostanze, non è oggi da escludere che il destino della difficile pace afghana passi per Mosca, che ha iniziato a vedere nei talebani una pedina contro il jihadismo transnazionale e la Nato.

Le sfide all’orizzonte
La popolazione afghana si ritrova oggi intrappolata in una spirale soffocante di estrema insicurezza: dal 2007 ad oggi il Paese si è classificato nei primi tre posti al mondo per numero di attentati terroristici, e se nel 2015 il governo centrale influenzava o controllava il 72% del territorio, oggi tale percentuale si è ridotta al 52%.

Inoltre, da una scissione dei talebani pachistani ed afghani è nata nel 2015 Isis-Khorasan che, seppur contando attorno ai 1.600 elementi (le milizie talebane sono invece 40.000) ed avendo subito pesanti sconfitte negli ultimi mesi, ha dimostrato di saper compiere attacchi brutali sia in territorio afghano sia pakistano.

Questi dati si riflettono nei risultati di approfondite ricerche sulla percezione degli afghani in relazione al loro Paese, le quali nell’ultimo triennio hanno registrato un vertiginoso declino in negativo. Il 65% della popolazione crede che il Paese vada nella direzione sbagliata per tre ragioni, che rispecchiano anche le maggiori sfide dei prossimi anni: la precaria situazione securitaria, l’elevato tasso di disoccupazione ed una corruzione rampante (posizionandosi 169esimo su 175 nel mondo, nella celebre classifica di Transparency International).

Pace: sentiero politico, non solo militare
Le fondamenta della stabilità, ed anche la fiducia dei cittadini nei confronti del governo centrale e delle sue ramificazioni locali, verranno gettate quando si capirà che la soluzione militare è parte di un processo politico ben più ampio.

Bisogna proporre un’iniziativa che includa necessariamente le fazioni talebane meno radicali nel processo di pace, delegittimando quelle più estremiste attraverso il miglioramento delle capacità di governance dello Stato, aumentando la sicurezza, rafforzando il potere giudiziario e diminuendo drasticamente la corruzione - definita causticamente dalla missione Onu in Afghanistan come “l’altro campo di battaglia” del governo di Kabul -, che si riproduce anche a causa dei traffici illeciti d’oppio, la produzione del quale (vitale per il sostentamento quotidiano di molti) ha pure fatto registrare una crescita del 10% nell’ultimo anno.

Ludovico De Angelis studia Relazioni Internazionali ed ha effettuato un tirocinio presso lo IAI ed il Ministero degli Affari Esteri.
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lunedì 19 giugno 2017

Francia: verso nuovi orizzonti politici

Legislative, primo turno
Francia: Macron pensiona una classe politica
Jean-Pierre Darnis
13/06/2017
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"La Francia è di ritorno". È così che il primo ministro Edouard Philippe ha commentato la vittoria del partito La République En Marche nel primo turno delle elezioni legislative. Si prevede che, dopo il ballottaggio del 18 giugno, il partito creato un anno fa otterrà più di 400 seggi, conquistando una larghissima maggioranza.

I partiti tradizionali sono stati polverizzati dall’onda nuova. Un’intera classe politica viene mandata in pensione. Il tasso di partecipazione debolissimo, sotto il 50%, contribuisce ad ampliare questo risultato. Mentre il partito di Macron riesce a mantenere i consensi ottenuti al primo turno delle presidenziali, il 23 aprile, gli altri partiti perdono milioni di votanti.

Una forma di consenso tramite l’astensionismo
È come se si fosse creato una forma di consenso passivo attraverso l’astensionismo: anche chi non lo sostiene, non prova nemmeno a contrastare l’onda Macron. Il presidente della Repubblica appare pienamente legittimo e molti oppositori gli vogliono lasciare affrontare la prova del potere, perché, alla fine, sono tutti convinti che la società francese va scossa per uscire dall’immobilismo.

Il fenomeno è così forte che molti non riescono a capacitarsi: ripiangono la destra e la sinistra, puntano il dito contro la poca esperienza dei neo-eletti, mettono in guardia contro i rischi di una maggioranza assoluta così ampia, si augurano persino un “autunno caldo” di mobilitazione delle piazze.

Non riescono a capire che tutto sommato si tratta di una vittoria normale, di proporzioni ad esempio paragonabili a quella delle elezioni del 1993 e che quindi che non crea di per sé un problema. E non riescono a cogliere la volontà di riforme al centro, con spirito trasversale costruttivo, che attraversa l’elettorato francese.

Un presidente bravo e fortunato
Abbiamo già sottolineato la bravura ma anche la fortuna di Macron, che ha saputo trarre beneficio dell’apertura di uno spazio politico nuovo, mentre i vecchi partiti di destra e di sinistra erano inceppati nei loro meccanismi di riproduzione di classi dirigente e di soluzioni trite. Dopo le legislative, Emmanuel Macron potrà contare su una squadra coesa, fra governo e parlamento. E potrà ulteriormente spingere sulle riforme: moralizzazione della vita pubblica, legge sul terrorismo e riforma del mercato del lavoro.

Quest’ultima rappresenta un tassello strategico. Al di là dell’opportunità della flessibilità del mercato del lavoro, Macron ha capito che si tratta di una misura di grande portata a livello internazionale, un punto sul quale Paesi come la Germania giudicheranno l’azione dell’esecutivo francese.

La battaglia per la riforma del mercato del lavoro è ovviamente una battaglia interna, in cui Macron prova a spostare gli equilibri di parti sociali spesso conservatrici. Ma si tratta anche, e magari soprattutto, di una battaglia che deve lanciare la campagna di Macron in Europa. Il presidente ha ben presente che nel contesto globalizzato il riformismo interno non crea effetti se non si inserisce in una dialettica europea.

Principale obiettivo, il dialogo con la Germania
Il suo principale obiettivo è di stabilire un dialogo con la Germania, il che significa potere negoziare una serie di dossier nei quali, a fronte delle novità francesi, la Germania si dimostri pronta a fare evolvere alcune sue posizioni percepite come delle rigidità e dei freni al rilancio economico dell’Europa. Dal ministro dell’economia Bruno Le Maire al consigliere diplomatico della presidenza Philippe Etienne, già ambasciatore a Berlino, la squadra di governo è provvista di solidi esperti che vantano relazioni dirette con Berlino.

Tutto questo per meglio servire l’obiettivo di fare evolvere le posizioni di una Germania restia alle novità. Il calendario è chiaro: Macron vuole adottare la riforma del mercato del lavoro entro fine settembre, in modo tale da potersi presentare con le carte in regola all’appuntamento di ottobre con il nuovo esecutivo tedesco, dopo le elezioni politiche in Germania, e rilanciare il “motore franco tedesco”, cioè l’incontro fondamentale fra posizioni del Nord e Sud Europa.

Una spinta al riformismo e all’integrazione
Da questa intesa rinnovata, potrebbe poi partire una serie di spinte ulteriori al riformismo e all’integrazione europea. Le difficoltà internazionali costituiscono un contesto favorevole per questi mutamenti: la presidenza Trump, la crisi politica del Regno Unito alle prese con la Brexit, senza dimenticare la minaccia terrorista, costituiscono un contesto problematico che spinge a rinnovate convergenze al livello europeo.

Ma va anche sottolineato la dimensione francese di questa dinamica: è da tanto tempo che la Francia non si muoveva con una strategia così chiara e potenzialmente in grado di creare una dinamica al livello europeo.

A breve il chiasso elettorale si placherà e si potrà osservare “La République En Marche” al lavoro. Macron ha gestito con grande abilità le prime mosse del governo Philippe e proseguirà con decisione. La stragrande maggioranza dei francesi si augura un riformismo che possa produrre miglioramenti in termine di crescita, di benessere e soprattutto di riduzione delle fratture sociali.

Esiste, quindi, un consenso riformista a Parigi, un consenso che in poche mosse potrà allargarsi all’Europa intera. Ed è questo il significato del ritorno della Francia. Deve essere capito per quello che è: una possibilità di apertura da parte di una maggioranza politica trasversale e riformista, che va anche colta dai partners europei.

Per l’Italia e gli italiani il rapporto con la Francia è sempre stato complicato, intriso di rivalità storiche e psicologiche. Varrebbe la pena superare queste scorie del passato per considerare con pragmatismo il rinnovato slancio politico parigino e coglierne le opportunità di convergenze sull’agenda europeo. Tutto sommato, una “Europe en Marche” non farebbe male a nessuno, anzi.

Jean Pierre Darnis è Direttore Programma Sicurezza e Difesa IAI.

domenica 18 giugno 2017

Egitto: un nodo da sciogliere per l'Italia

Caso Regeni
Italia-Egitto: non mandare l’ambasciatore
Paola Caridi
15/06/2017
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Un cittadino italiano viene sequestrato, torturato, ucciso sul territorio italiano. La macchina investigativa e giudiziaria si mette in moto. Vengono individuati, attraverso indizi e anche prove, alcuni dei responsabili e viene definita la linea di comando che ha deciso il delitto.

Non esiste prescrizione per reati di tale entità: investigatori e magistrati faranno il loro dovere, ci sarà un processo, una condanna. Con tempi spesso lunghi. La macchina della ricerca della verità e della giustizia, in ogni caso, non verrà interrotta per motivi di realismo politico. Almeno, non formalmente.

Perché dovrebbe essere diverso per un cittadino italiano vittima di un delitto dello stesso tipo, commesso però all’estero? Perché la politica estera dovrebbe decidere - si badi bene, senza alcun mandato costituzionale e legislativo - una prescrizione de facto? Sono domande, queste, non puramente teoriche. Riguardano uomini e donne in carne e ossa.

Riguardano, come si può facilmente comprendere, la vicenda di cui è stato vittima un cittadino italiano di nome Giulio Regeni, sequestrato, torturato e ucciso al Cairo nel 2016, nella settimana che corre tra la sua scomparsa (il 25 gennaio) e il ritrovamento del suo corpo senza vita, il 3 febbraio successivo.

Giustizia o convenienza 
Se il delitto fosse stato compiuto in Italia, nessuno avrebbe posto una minima questione di realpolitik. Questione che, invece, viene posta da oltre un anno per la vicenda di Giulio Regeni. Come se i diritti fossero a corrente alternata. Come se la difesa di un cittadino italiano si dovesse attenere a standard diversi a seconda del luogo in cui il reato è stato commesso. In Italia, la giustizia. All’estero, la convenienza.

La politica però, si risponde in questo caso, è l’arte del compromesso, soprattutto quando è in gioco il ruolo di un Paese, come l’Italia, in un quadrante così complesso come il Mediterraneo. Gli interessi sono interessi strategici, dicono coloro che - da oltre un anno, a intervalli regolari - chiedono il ritorno del nostro ambasciatore al Cairo, richiamato per consultazioni nell’aprile 2016 (posizione recentemente ribadita su queste colonne da Ugo Tramballi, ndr).

A rientrare a Roma, poco più di un anno fa, fu l’ambasciatore Maurizio Massari, protagonista di un percorso diplomatico che ci dovrebbe già dire molto: la sua fermezza (è ovviamente una ipotesi di chi scrive) è stata fondamentale almeno per riuscire ad avere il corpo di Giulio Regeni, che molto probabilmente sarebbe scomparso come quello di migliaia di desaparecidos egiziani di cui non si sa nulla dall’ascesa al potere, nel 2013, di Abdel Fattah al Sisi.

A ritornare al Cairo, dovrebbe essere invece Giampaolo Cantini, nel frattempo designato ambasciatore in Egitto, uno dei nostri migliori diplomatici, con una esperienza profonda del Mediterraneo, dall’incarico di ambasciatore in Algeria passando per il periodo come bravissimo console generale a Gerusalemme (periodo sin troppo breve, appena undici mesi, prima di essere chiamato a Roma a dirigere l’ufficio della Cooperazione italiana).

La mossa del governo
Ora, perché la questione del ritorno dell’ambasciatore al Cairo è così importante? Perché la politica estera è fatta anche di gesti, e i gesti hanno un preciso significato. L’unico vero atto politico compiuto dai governi italiani - prima quello a guida Renzi poi quello a guida Gentiloni - è stato proprio il ritiro del nostro ambasciatore, per dare un forte segnale agli egiziani e spingere per frenare le innumerevoli e patetiche ‘verità’ proposte da investigatori e governanti del Cairo.

Se ci si riflette con attenzione, Roma ha fatto solo questo: ha soltanto ritirato l’ambasciatore. Non ha fatto, almeno non l’ha fatto in maniera ufficiale, altre mosse per spingere sul regime di al Sisi.

Il governo italiano non ha chiesto una pressione comune dell’Unione europea verso l’Egitto, nonostante Giulio fosse cittadino italiano e studente internazionale in un ateneo di un Paese europeo, dunque portatore di diritti che devono essere difesi anche dagli altri paesi aderenti all’Ue. Se non vi fosse stata una rappresentanza italiana al Cairo, per esempio, la difesa di Regeni sarebbe stata presa in carico da una delle ambasciate dell’Ue presenti in Egitto.

Realpolitik: interessi economici vs diritti individuali
E arriviamo, così, alla questione dei nostri rapporti economici con l’Egitto. Rapporti importanti, imponenti. Nel 2016 il nostro export è arrivato a 3 miliardi di euro. Abbiamo interessi petroliferi, bancari, manifatturieri. In Egitto non ci sono solo Eni ed Edison, c’è una società dell’Ital Cementi, perché il cemento è un altro degli affari d’oro nell’importante Paese arabo. Dunque, secondo la lettura ‘realista’, i diritti di un cittadino italiano debbono piegarsi agli interessi dello Stato italiano. Agli interessi economici, per la precisione.

È davvero così? Io credo di no. E non solo perché, dal punto di vista delle garanzie al cittadino, lo Stato non può avere una posizione diversa da quella della difesa e della giustizia senza prescrizione. Credo anche che gli interessi economici tra Egitto e Italia siano già tutelati non solo dalla nostra macchina diplomatica, ma anche (se non soprattutto) da quella diplomazia non ufficiale che l’Eni esercita in tutti i Paesi in cui è presente.

In Egitto, in primis, dove l’Ente nazionale idrocarburi è presente da mezzo secolo. Chi ha vissuto al Cairo sa bene quanto l’Eni esercitasse ed eserciti un ruolo tutto suo, non solo con la presenza dei suoi dirigenti in loco, ma con un tessuto fatto di tecnici, di investimenti non solo petroliferi, di esperti, di rapporti diretti con la macchina amministrativa egiziana. Con o senza la presenza dell’ambasciatore italiano al Cairo.

Un’assenza che non danneggia il Paese
L’assenza del nostro ambasciatore, in sostanza, non danneggia i nostri interessi in Egitto. Non c’è il nostro rappresentante diplomatico, ma c’è l’ambasciata. Gli interessi dei nostri connazionali che vivono al Cairo sono protetti. Perché a proteggerli è, per competenza, il consolato, deputato alla tutela dei nostri cittadini. Chi ha vissuto all’estero sa che la diplomazia è fatta di persone e di meccanismi. In mancanza di un ambasciatore, la struttura dell’ambasciata e del consolato continua a funzionare. Come sempre.

L’assenza del nostro ambasciatore, però, segnala che non è business as usual tra Italia ed Egitto. Segnala, attraverso la freddezza dei rapporti, che non si può passare sopra a un omicidio di Stato, e a un omicidio commesso in un Paese retto da un regime profondamente compromesso dal punto di vista delle violazioni dei diritti umani e civili. Tra i 40mila e i 60mila detenuti politici, a seconda delle fonti. Centinaia di desaparecidos. Libertà di stampa ai minimi storici. E cittadini egiziani fatti oggetto di pressioni illegali durante la loro presenza in Italia, come successo recentemente a Roma, quando alcuni intellettuali egiziani sono stati molestati da agenti dell’intelligence del Cairo.

La dignità di Giulio vale più dell’interscambio commerciale
Di fondo, comunque, la domanda è una e una sola. Quanto valgono la vita, la dignità, i diritti di un cittadino italiano? I cinque miliardi del nostro interscambio con l’Egitto? Non è un po’ poco? Perché la difesa della dignità di Giulio Regeni, violata sin troppe volte in questi sedici mesi, ha un prezzo ben più alto dell’interscambio tra Italia ed Egitto.

Non riuscire a difendere la dignità di Giulio Regeni significa non difendere lo Stato di diritto italiano, e neanche il ruolo dell’Italia nel Mediterraneo, nella regione araba, nel grande Medio Oriente. Non è chinando il capo ai rinvii del regime egiziano che si riusciranno a difendere, per esempio, gli interessi strategici italiani in Libia, dove l’Egitto esercita pressioni fortissime attraverso il suo alleato, il generale Khalifa Haftar. Chinare il capo, mostrarsi deboli e pronti a un compromesso disonorevole non proteggerà i nostri militari in Libano, né i soldati e gli uomini dell’intelligence che abbiamo in altri quadranti.

La storia delle nostre relazioni nel Mediterraneo negli ultimi quarant’anni ci dovrebbe aver insegnato che non c’è bisogno di essere servili per ottenere un profilo importante nei negoziati e nella difesa dei nostri interessi strategici. Al contrario, la fermezza è quella che, nelle volte in cui l’abbiamo esercitata, ci ha dato una statura che ancora si ricorda nell’area. Un esempio tra tutti: la guida che il generale Carlo Angioni ebbe della nostra prima missione di peacekeeping all’inizio degli anni Ottanta. A Beirut, se la ricordano ancora bene.

Paola Caridi è analista e scrittrice (@invisiblearabs).