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martedì 21 marzo 2017

Dal Peacekeeping al Peacebuilding. Dal Dire al Fare

Un Case Study molto interessante.
Spazi per qualsiasi intervento non ce ne sono; 
il Ruolo dell''Italia? e dell'Europa?

Note e commenti sono graditi


Crisi di serie B
Yemen, due anni di guerra: solo Al-Qaeda vince
Eleonora Ardemagni
15/03/2017
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Due anni di guerra e nessun accordo di pace all’orizzonte. Di fatto, agli occhi di gran parte della comunità internazionale, lo Yemen è “una crisi di serie B”. Non lo è affatto per Riad, forse non lo è più per gli Stati Uniti dell’era Trump (ma non è necessariamente una buona notizia).

Dal marzo 2015, una coalizione militare di nove Stati arabi, guidata dall’Arabia Saudita, bombarda le zone occupate dai miliziani sciiti zaiditi (gli huthi del nord, tatticamente alleatisi con il blocco di potere dell’ex presidente Saleh), dopo il golpe nella capitale Sana’a e la presa temporanea di Aden, città del sud divenuta sede provvisoria delle istituzioni riconosciute. La coalizione dispiega anche truppe di terra, sotto la guida degli Emirati Arabi Uniti.

Due anni dopo, nessuna fazione ha definitivamente prevalso: solo Al-Qaeda nella Penisola Arabica (Aqap) trae vantaggio dal conflitto, controllando per lunghi periodi città strategiche. Paradossalmente, c’è un’altra variabile che potrebbe ora giovare ai jihadisti.

È la nuova politica di “ostilità attiva” contro Aqap (parole del Pentagono) inaugurata da Washington: perché bombe e raid di commando, in assenza di una seria iniziativa diplomatica per risolvere il conflitto, rischiano di favorire solo la propaganda e il reclutamento jihadista.

Stallo militare: il punto
Taiz, cuore dell’Islam politico yemenita, è ancora assediata dagli huthi, che non hanno esitato a sparare razzi sulla popolazione e a minare il territorio, come denuncia un recente report di Human Rights Watch. Perché in Yemen non si muore solo per i bombardamenti sauditi che troppe vittime civili hanno causato (anche con bombe a grappolo): a Hodeida, sul mar Rosso, gli huthi, che controllano ancora la città, hanno bloccato l’ingresso degli aiuti umanitari, in un paese già stremato dall’embargo saudita.

Da due mesi, il fronte bellico più caldo è proprio quello occidentale, tra mar Rosso e stretto del Bab-el-Mandeb. Al-Mokha è stata liberata dai filo-governativi, ma sacche di resistenza persistono nei suoi dintorni: l’obiettivo è ora Hodeida.

La piana occidentale della Tihama è strategica per tre ragioni: è ricca di porti, è uno degli ingressi per le armi che l’Iran invia agli huthi (insieme al confine omanita), è infine uno snodo commerciale e petrolifero fondamentale (qui passano 3 milioni di barili di greggio al giorno) per collegare l’Oceano Indiano al Mediterraneo, via Bab-el-Mandeb e Suez.

Comunque, le armi ricevute da Teheran sono in numero nettamente inferiore rispetto a quelle che la fazione sciita dello Yemen ha sottratto all’esercito, grazie all’alleanza con Saleh.

Rischio navigazione
Crescono le minacce alla libertà di navigazione nello stretto del Bab-el-Mandeb, dove Washington ha ora inviato la Uss Cole. Quattro gli episodi più gravi: due navi militari statunitensi oggetto di attacchi missilistici in acque internazionali (ottobre 2016, sono seguiti bombardamenti Usa contro un sito radar dei ribelli), così come un catamarano emiratino - solo quest’ultimo episodio è stato rivendicato dagli huthi.

Lo scorso gennaio, una fregata saudita è stata attaccata dagli insorti, con tre barche, al largo di Hodeida, uccidendo 2 marines di Riad: inizialmente ritenuta un’azione kamikaze, si è poi appurato che a lanciarsi contro la nave saudita è stata un’imbarcazione-drone, di tecnologia simile a quelle impiegate da Teheran per il contrabbando nel Golfo. Washington ha appena diramato un’allerta mine alle navi commerciali in transito nel Bab-el-Mandeb: gli huthi avrebbero minato le acque limitrofe al porto di Al-Mokha.

Golfo nel Corno
A prescindere dalla durata del conflitto, la presenza militare dei paesi del Golfo in Yemen sarà di lungo periodo; inoltre, data la forte instabilità dell’area, l’incidenza della pirateria fra Golfo di Aden e Somalia potrebbe tornare a crescere. Non è dunque un caso che gli Emirati abbiano aperto la loro prima base militare all’estero in Eritrea (già appoggio logistico per la missione yemenita) e stiano trattando la costruzione di un altro avamposto nel Somaliland. Anche l’Arabia Saudita sta progettando la sua prima base militare estera, nell’ormai affollatissima Gibuti.

Escalation Usa
Dal 20 gennaio, giorno dell’insediamento di Trump, i bombardamenti statunitensi contro postazioni di Aqap in Yemen, anche con i droni, hanno già superato il numero degli attacchi sferrati nell’intero 2016 (furono 38). Infatti, sono una quarantina i raid confermati dal Pentagono e concentrati nel triangolo centro-meridionale fra Al-Bayda, Abyan e Shabwa (tra cui cinque giorni consecutivi tra il 2 e il 6 marzo).

L’operazione commando del 29 gennaio in Al-Bayda ha causato la morte di un soldato speciale statunitense, di una ventina di jihadisti, di più di 25 civili: l’Amministrazione Obama non aveva mai autorizzato tali operazioni dall’inizio della guerra.

Separare le tribù locali dai qaedisti è essenziale per contenere l’espansione jihadista: ciò si può tentare solo lavorando a un progetto politico che fermi un conflitto che ha già causato 10 mila morti, non certo raddoppiando i raid.

Eleonora Ardemagni, analista di relazioni internazionali del Medio Oriente per Aspenia e Ispi. Gulf and Eastern Mediterranean Analyst, Nato Defense College Foundation; commentatrice per Avvenire. Autrice di “From insurgents to hybrid security actors? Deconstructing Yemen’s Huthi Movement”, Ispi Analysis (in via di pubblicazione).

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