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sabato 9 marzo 2019

Perestrojka

Maurizio Vezzosi

Le persone ridotte in schiavitù nell'ex Unione Sovietica si contano nell'ordine della centinaia di migliaia: qui il costo di uno schiavo è compreso tra i quindici ed i ventimila rubli, una cifra grossomodo quantificabile tra i duecento ed i duecentosettanta euro.

di Maurizio Vezzosi

Mosca - Makhachkala – Il senso comune darebbe la schiavitù per debellata da  almeno un paio di secoli, almeno in Europa ed almeno rispetto allo sfruttamento della forza-lavoro. Nell'Europa dei nostri giorni la schiavitù è invece una piaga drammaticamente attuale: nel mondo ex-sovietico la schiavitù è riemersa in un ordine di grandezza inquietante durante gli anni di Eltsin. soprattutto nel Caucaso settentrionale. Come testimonia il documentario “Il mercato degli schiavi” girato in Cecenia in quegli anni, a ridosso del mercato di Urus-Martan, cittadina allora controllata de facto da un clan legato al wahabismo della regione, si trovava addirittura un edificio adibito a rivendita di schiavi. 

Oltre ai sistema delle proprietà, che legava i contadini al latifondo, nella Russia zarista il commercio di esseri umani era largamente diffuso. Secondo le testimonianze del tempo nei bazar ottomani del diciottesimo e del diciannovesimo secolo era piuttosto comune trovare schiavi a disposizione di mercanti ed acquirenti: molti di questi schiavi provenivano dal Caucaso settentrionale, definitivamente conquistato dai russi solo nel 1864. Le navi dei mercati turchi salpavano dalla costa georgiana per trasportare gli schiavi caucasici ad Istanbul, e da qui a Smirne, e verso l'Egitto. 

Oggi il baratro della schiavitù in cui sprofondano migliaia di persone comincia ad appena qualche chilometro dagli sfarzi del centro di Mosca. Alcolisti, tossicodipendenti, senza tetto, persone con disturbi mentali vengono avvicinate e ricevono delle proposte lavorative che, nella loro condizione, appaiono interessanti. Nel caso di persone indebitate, viene presentata loro la possibilità di saldare il debito con un periodo di lavoro: o dal creditore, o da parte di “specialisti” del recupero crediti. Le proposte di lavoro riguardano generalmente impieghi nelle regioni periferiche della Federazione Russa, o a ridosso delle sue frontiere. 

Convinti a mettersi in viaggio, si dirigono verso le destinazioni loro assegnate: a volte soli, altre con gli stessi reclutatori da cui sono stati avvicinati. Il Caucaso settentrionale è una delle più frequenti: Daghestan, Circassia, Cecenia ed altre regioni. Durante il viaggio, o appena arrivati nella destinazione loro assegnata vengono privati immediatamente dei documenti: gli vengono sottratti passaporto, effetti personali, soldi e qualsiasi strumento di comunicazione, per poi essere portati nei luoghi dove saranno costretti a lavorare in condizioni addirittura peggiori di quelle degli operai e dei contadini della Russia zarista. I ritmi di lavoro sono terrificanti: spesso le migliaia di schiavi post-sovietici lavorano dalle sei di mattina alle nove di sera, non di rado indipendentemente dalle condizioni meteorologiche -  spesso proibitive – e quasi sempre senza alcun giorno di riposo e senza alcuna libertà di movimento. Senza alcun tipo di retribuzione, se non l'indispensabile per sopravvivere. Spesso vivono nelle baracche, in condizioni igieniche che probabilmente risulterebbero inadeguate persino per gli animali, sotto il torchio di umiliazioni, di violenze fisiche e psicologiche.  Costretti a fabbricare mattoni, lavorare nei campi o negli allevamenti, molti di loro trascorrono in queste condizioni interminabili anni. Tutto questo, nel caso di persone sole, avviene spesso a completa insaputa della famiglia e dei conoscenti: questi anche se consapevoli difficilmente riescono ad avere notizie, ed attivarsi di conseguenza per rendere possibile la liberazione della persona ridotta in schiavitù. “Un amico mi disse che un suo parente era stato portato in Daghestan, e ridotto in schiavitù. Inizialmente non ci credevo molto, ma mi sono andato ad andare in Daghestan. Lo abbiamo liberato insieme, e poco dopo, abbiamo liberato un'altra persona che si trovava nello stesso luogo. Nonostante avessi contattato da subito molti giornalisti per raccontare la vicenda, in primo momento nessuno aveva parlato di quello che era successo. Non credevo che da questa esperienza sarebbe nato un progetto strutturato, ma settimana dopo settimana il nostro lavoro andava avanti e si strutturava man mano. Da quando abbiamo cominciato sono passati già sette anni.” spiega Oleg Melnikov, fondatore dell'organizzazione Alternativa, attualmente la principale realtà non governativa che fronteggia il problema della schiavitù nel mondo ex-sovietico. Il giovane racconta a L'Espresso: “Dall'inizio della nostra attività abbiamo liberato fisicamente quasi settecento persone e ridato loro una dignità. Vorremmo occuparci anche del loro sostegno psicologico e del loro reinserimento sociale e lavorativo. Tuttavia la nostra attività è particolarmente dispendiosa, ed i nostri fondi sono limitati. Non abbiamo abbastanza risorse”. E sul ruolo delle istituzioni aggiunge:  “Grazie al nostro lavoro l'attenzione dei media e delle istituzioni federali è cresciuta, ma continua a non essere sufficiente. Manca anche una legge specifica che definisca in termini chiari la schiavitù, contemporanea per evitare empasse burocratici”.

In alcuni casi, come quello di Dmtry Pavlilov e molti altri, dopo essere state avvicinate dai reclutatori per diventare schiavi, le persone assumono a loro insaputa bevande con farmaci o narcotici, così da semplificare il lavoro al reclutatore. Prima del caso di Dmtry Pavlilov, per trovare conferma di queste modalità, Oleg Melnikov, si era fin to un senzatetto, e per una settimana si era accampato alla stazione Kazanskij di Mosca. Dopo essere stato avvicinato da un reclutatore, gli era stata offerta una bevanda: poco dopo, mentre già stordito dal narcotico assunto veniva fatto salire su un minibus diretto in Daghestan, era riuscito ad avvertire i suoi compagni, scongiurando il peggio. Melnikov racconta di aver sfiorato l'overdose, e di essere stato per questa ragione costretto al ricovero ospedaliero per vari giorni.

“Appena sono arrivato mi hanno tolto tutto: la borsa, i soldi, i documenti. – racconta Alexandr Sukov, riguadagnatosi la libertà lo scorso gennaio dopo un mese e mezzo di schiavitù – Mi avevano promesso una paga tra i venti ed i venticinquemila rubli (circa tra i duecentosettanta e i trecentotrenta euro, NdA) ma non ho mai visto un soldo. Come molti altri ho cominciato a lavorare in una fabbrica di mattoni in Daghestan. Da subito ho pensato alla fuga: alla fine, di notte per fortuna sono riuscito a scappare”. 

In altri casi tentativo di fuga è assai meno fortunato, e viene pagato caro. In Daghestan, così come altrove, spesso gli impresari e reclutatori coinvolti nello sfruttamento godono della complicità – retribuita - di autisti, tassisti, e persone che lavorano nelle autostazioni, ed in caso di fuga  di  uno degli schiavi acquistati hanno il compito specifico di rintracciarli e riportarli indietro.

Nella Russia dei nostri giorni il costo di uno schiavo è compreso tra i quindici ed i ventimila rubli, una cifra grossomodo quantificabile tra i duecento ed i duecentosettanta euro. Sebbene non esistano statistiche complessive sulle persone ridotte in schiavitù nel mondo post-sovietico, escludendo dal conteggio la schiavitù sessuale e considerando la sola schiavitù finalizzata allo sfruttamento della forza-lavoro, molti ritengono che l'ordine di grandezza del fenomeno sia quelle delle centinaia di migliaia. I luoghi in cui si consumano gli orrori della schiavitù sono spesso quelle zone dove il potere centrale si fa distratto per concretizzare quello che risulta l'unico compromesso possibile con i poteri dei clan e dei gruppi criminali locali: compromessi la cui necessità, soprattutto nel caso del Caucaso settentrionale, urta non poco il Cremlino, in particolare rispetto a regioni come Daghestan, Kabardino-Balkaria, Circassia, Cecenia. 

Sia durante la storia sovietica, che durante la Perestrojka, i tempi torbidi degli anni novanta, il Daghestan - come il resto della regione – si è caratterizzato da un complesso rapporto con il Cremlino, costretto a districarsi tra forzature e compromessi con le élite locali, la corruzione, ed i gruppi criminali. 

Alla fine del 2017 il presidente della Repubblica autonoma del Daghestan Ramazan Abdulatipov è stato sostituito con una nomina prefettizia da Vladimir Vasiliev, il primo presidente della regione che non appartiene a nessuno dei principali gruppi etnici locali: una nomina, quella di Vasiliev, che lascia intendere che il diffuso malcostume abbiano esaurito la pazienza di Mosca.
Alcune settimane fa Vladimir Putin si è recato in visita a Makhachkala, capitale del Daghestan: lo scopo della visita – almeno ufficialmente – ha riguardato la situazione economica, politica e sociale della regione. Il Daghestan è infatti la regione che pesa di più in termini assoluti nel bilancio federale: un sostegno, quello di Mosca, che vale quasi un miliardo di dollari l'anno. Una parte rilevante di questi soldi viene risucchiata dal vortice della corruzione, lasciando irrisolti molti problemi della regione, come quello della disoccupazione, della radicalizzazione islamica, e della  larga diffusione della schiavitù. 

Uno degli aspetti che emerge dalle testimonianze delle persone costrette alla degradazione schiavistica è l'accettabilità sociale della loro condizione, testimonianze che non lasciano spazio a fraintendimenti. Oggi, sebbene finora ignorate da molti, le forme della schiavitù, in alcuni contesti del mondo ex-sovietico vengono considerate legittime, e quindi accettabili. Nel mondo ex-sovietico alcuni degli schiavi dei nostri giorni, ignorano persino di avere il diritto di andarsene dai luoghi in cui vengono annichiliti.

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