Maria
Luisa Suprani Querzoli
Il
Generale De Rossi e la Battaglia del Monte Mrzli (2 giugno 1915)
Al Generale Eugenio De Rossi si deve la conoscenza
dell’ambiente militare durante l’Età Umbertina: la sua autobiografia, infatti,
accanto ai profili di figure divenute poi celebri, si sofferma ampiamente su
fragilità e virtù che connotarono il mondo militare (italiano e straniero) a
cavallo fra Ottocento e Novecento. Il suo si rivela quindi un contributo
indispensabile per comprendere l’assetto mentale, morale e professionale, dell’Italia
prossima ad entrare in guerra.
De Rossi, ad un certo punto della
carriera, approdò felicemente fra i Bersaglieri: il suo dinamismo (provetto
ciclista) e la capacità di coinvolgere con l’esempio i propri sottoposti denotavano
in lui una rara sinergia fra equilibrio ed entusiasmo. Anche alla sua opera di
intelligence l’Esercito dovette molto[1].
La grave ferita riportata durante
le primissime azioni di guerra lo rese invalido, determinando così per lui la
fine della partecipazione attiva al conflitto.
Varrà la pena riportare per esteso
la descrizione del momento drammatico in cui De Rossi rimase colpito per poi
concludere con alcune brevi riflessioni:
Tornai tra i miei bersaglieri, dissi brevemente essere venuta l’ora della
prova, quella che il destino ha fissato per ognuno. Mi volsi poi a don Gilardi
e lo invitai a far atto del suo ministero per i credenti e i miscredenti. […] I
volti gravi ma fermi, la fierezza con la quale si drizzarono dopo l’assoluzione
in articulo mortis mi dette la
sicurezza della loro intrepida risoluzione. Avviai la pattuglia ufficiali, la
compagnia di avanguardia e con essa mi incamminai.
Posi sul cappello l’aigrette bianca
da colonnello: aveva brillato alla parete, si mostrasse ora al combattimento.
[…] Superammo altri 300 metri di dislivello. Tutto il mio essere era teso vero
l’imminente scoppiar della fucilata, poiché il nemico non poteva tardare farsi vivo. […] Feci dare il segnale di
allungare il tiro, ma non fu compreso, o compreso alla rovescia, perché invece
cessò improvvisamente […]. [I]l silenzio dei nostri pezzi fu immediatamente
seguito dal crepitare della fucileria nemica e dall’abbaiare delle
mitragliatrici, entrate in azione furiosamente. Ma la truppa stette salda
attorno agli ufficiali e continuò poi l’ascesa sotto la raffica mortale,
accorrendo alla mia voce che incitava e chiamava superando, stentorea come poi
mi dissero, il fragore degli spari.[2]
Una constatazione prima di proseguire nel racconto: l’impiego
delle artiglierie in affiatamento con il procedere delle truppe si dimostra fin
da subito un punto di grave fragilità. L’esempio di compensazione morale alle
manchevolezze di ordine tecnico è encomiabile. La narrazione di quel momento
terribile gravido di molte perdite è particolarmente efficace: la si riprenderà
dal momento in cui le cose, per De Rossi, precipiteranno.
Conclusione: un attacco frontale oltre che sanguinosissimo non
condurrebbe ad alcun risultato, perché sarebbe impossibile rimanere sulla
posizione conquistata, dominata completamente dallo Sleme; conviene perciò
attendere che cominci l’azione che, per l’alto, doveva svolgere la colonna di
fanteria ed artiglieria da montagna verso lo Sleme stesso, per il momento
concorrervi dimostrativamente. Spiegai questa decisione ai miei ufficiali.
Insistendo particolarmente con Negrotto della necessità della sosta, parve
persuaso. Lasciai la linea di fuoco per
scendere ad una cinquantina di metri, in un punto donde si scorgeva il terreno
che avrebbe dovuto percorrere la colonna aggirante e vedere altresì l’arrivo
dei battaglioni chiamati in rinforzo […]. Non erano trascorsi dieci minuti che
scoppiò vivacissimo il fuoco sul fronte, seguito dal grido di «Savoia!».
Era
Negrotto che preso, suppongo, da un accesso di pazzia guerriera, volendo,
ritengo, coprirsi di gloria e dimostrare che la baionetta è ancora oggi la
regina della battaglia aveva ad un tratto ordinato il fuoco celere e senza dar
tempo neppure a quel mezzo di agire, era partito all’attacco con il cappello sulla
sciabola, seguìto dal suo battaglione. Quei valorosi non avevano toccato il
fondo della dolina che già venivano falciati a mucchi: il resto dava indietro,
sulla posizione di partenza.
Esasperato
per la inutile e aperta disubbidienza, presi velocemente a salire sulla linea
di fuoco e dimentico di ogni precauzione mi ingolfai in una zona battuta da
mitragliatrici nemiche. Il cappellano mi avvisò del pericolo e mentre mi
volgevo verso di lui per rassicurarlo, ebbi la sensazione di ricevere un forte
pugno sul fianco destro. Subito le gambe mi si piegarono sotto.[3]
Volutamente non ci si soffermerà sulla gravità della ferita e
sull’azione tanto ingenua quanto sconsiderata del Negrotto, né sull’agonia di
quest’ultimo e sulle condizioni miserevoli in cui si trovò De Rossi, dato per
spacciato. Sarà opportuno scorgere invece in questo frammento durissimo della
Grande Guerra il passaggio storico fra il clima morale delle Guerre
Risorgimentali e le istanze feroci e sconosciute poste dalla tecnologia, capaci
di riformulare interamente le dinamiche del conflitto.
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