QUI SI FA L’AFGHANISTAN O SI
MUORE!
Un parallelismo tra il nostro
Risorgimento e la guerra in Afghanistan.
LA NOSTRA PERCEZIONE DELLA STORIA E DEI FATTI
Nel suo libro “Apologia della Storia”, Marc
Bloch, professore di Storia e padre dei moderni studi storici, narra un
episodio da lui vissuto che può considerarsi l’incipit del libro stesso. Bloch,
sottufficiale di leva, poi divenuto ufficiale durante il primo conflitto
mondiale, era stato successivamente richiamato nell’Esercito francese anche
durante la Seconda Guerra Mondiale, quale capitano addetto all’intelligence.
La vita militare di Bloch influenzò molto il suo lavoro di storico e di
patriota, tanto che egli perderà la vita, dopo aver combattuto come soldato in
due guerre, quale membro della Resistenza francese. Insomma, una sorta di
Indiana Jones ante litteram che scambiava libri e penna con fucili e
bombe a mano con inusuale disinvoltura.
Quando nel giugno del 1940, l’Esercito francese
si era rapidamente piegato all’avanzata tedesca, in quella che viene chiamata
la “Campagna di Francia” o “Battle of France” dagli Alleati e mentre lo Stato
Maggiore dell’Armata presso cui Bloch era inquadrato attendeva rassegnata il
momento della cattura, trovandosi circondata a Dunkerque; in quel frangente un Ufficiale
dello staff si abbandonava ad un commento: “Dobbiamo forse pensare che la
storia ci abbia ingannati?”. Cosa non avevano capito i francesi della
storia recente di conflittualità con la Germania?
Infatti, spesso la Storia viene studiata e non
imparata, talvolta imparata ma non capita o ancor peggio, viene capita a modo
nostro, ossia con i filtri dati dai nostri costrutti sociali e pertanto, difficilmente
riusciamo a guardare la cosa da un’altra prospettiva o essere empatici con
altre culture, col risultato di non capire la lezione, fallire il pronostico e non
comprendere il perché un fatto si sia verificato, come fatto ottant’anni fa
dall’Ufficiale citato da Bloch.
Ricordo che, nel 2014, un collega statunitense,
davanti a una mappa del Medio Oriente, mi sottolineava come l’Iran fosse uno
stato canaglia, inspiegabilmente a suo parere, nonché una minaccia per gli
Stati Uniti. Gli risposi che io non ero un esperto di geo-strategia, tantomeno
di geo-politica, però gli feci notare che c’erano truppe americane in
Afghanistan, Iraq, Emirati del Golfo, una flotta che navigava nel Golfo Persico
e una nel Mediterraneo, ossia quasi a circondare l’Iran per intero. Gli chiesi
poi, “Se ci fossero truppe iraniane in Canada, in Messico, a Cuba e due
flotte in navigazione nell’Atlantico e nel Pacifico, come americano, cosa
penseresti? Chi sarebbe in quel caso sotto minaccia?”. La sua onesta
risposta fu che non aveva mai osservato la situazione da quel punto di vista,
ovvero dal punto di vista iraniano.
UN SINGOLARE PARALLELISMO
Le forze della coalizione a guida statunitense,
dapprima con insegne nazionali e poi sotto i vessilli della NATO, hanno operato
in Afghanistan per circa 20 anni dal 2001 al 2021, salvo poi terminare la missione
con una ritirata fulminea, con i tratti drammatici di una rotta e con tanto di tragedia
umanitaria di fuga di profughi e “collaboratori” disperati, le cui immagini
hanno da subito fatto venire in mente la fuga americana da Saigon del 1975.
Ristudiando la storia dell’Afghanistan degli
ultimi cinquant’anni, non ho potuto fare a meno di fare un parallelismo tra le
vicende di quel tormentato Paese centrasiatico e il nostro Risorgimento.
Lungi da me paragonare il regime teocratico dei
Talebani, che tanto si discosta dai nostri costumi, ai padri della Patria, ovvero
di paragonare Massoud a Garibaldi; tuttavia ritrovo nello sviluppo
politico-militare degli avvenimenti, volti alla riunificazione e indipendenza
nazionale dei due Paesi, numerose affinità.
Verso la fine degli anni ‘70, l’Afghanistan è
in balia di correnti interne che si dimenano tra chi vorrebbe modernizzare ed
emancipare il Paese e chi lo vorrebbe ancorato alla tradizione agricola-feudale
e ai ristrettivi precetti religiosi. Come spesso accade nei Paesi in via di
sviluppo, il divario tra grandi città e campagne/montagne è abissale. I
modernisti auspicano un futuro radioso per il loro Paese sotto le idee
socialiste e i promessi principi di equità, abolizione di precetti e benefici
feudali, ricevendo al contempo tecnologia e modernità. Complice di tutto, ovviamente,
la confinante Unione Sovietica, portatrice internazionale di presunti valori
sociali e morali, la quale avrebbero liberato tutte le nazioni del mondo
dall’oppressione dei capitalisti, peraltro già cacciati dall’area un secolo
prima quando si presentarono sotto forma di colonialisti britannici.
Dopo una serie di insurrezioni e mosse
politiche poco chiare, nel 1979 l’URSS è “costretta” a intervenire a beneficio
del vicino, caldamente invitata a Kabul dai comunisti locali, per portare il
Paese verso la modernità e l’emancipazione. La cosa entusiasma forse un piccolo
nucleo di “illuminati” cittadini, ma è ostile al clero e ai possidenti terrieri
che subito mobilitano la popolazione nelle zone agro-pastorali dell’interno; tuttavia,
il file rouge che unisce tutti i gruppi tribali, religiosi ed etnici non
comunisti è cacciare lo straniero dal suolo patrio.
Non è uno scenario molto differente da quanto
fatto da Napoleone nel 1796, quando entra in Italia con le armi portando i
precetti della rivoluzione francese; acclamato da una frangia della borghesia
italiana ma osteggiato dal clero e dai nobili, con popolani e contadini tiepidi
poiché, col pragmatismo della povera gente, sanno che la loro vita non sarebbe assolutamente
cambiata.
L’intervento sovietico in Afghanistan chiede
subito un tributo di soldati locali per combattere la “reazione” dei Mujaheddin
sostenuti dal clero e dagli altri oppositori, supportati, sebbene tiepidamente
all’inizio, dalla potenza rivale dell’URSS: gli Stati Uniti. Ciò alla stregua
della “Legione Italiana” che Napoleone portò a combattere sino in Russia, senza
peraltro mai concedere al forte contingente il rango di Corpo d’Armata. Diciamo
che più che i principi e la morale, alla Grand Armée così come
all’Armata Rossa serviva “carne da cannone”.
In Afghanistan, nel 1989, dopo dieci anni di
lotta, la “reazione” non è domata e anzi, gli Stati Uniti forniscono sempre
nuovi e più potenti armamenti, anche se da soli non sarebbero decisivi, poiché
l’URSS non impiega che il 2% delle sue forze nel Paese e un repentino surge
di truppe sovietiche potrebbe ribaltare in un attimo la situazione. La vera
differenza la fanno i Mujaheddin afgani; dei guerrieri indomabili che non danno
tregua ai sovietici.
Tuttavia Gorbaciov nel 1989, come un novello
Napoleone a Waterloo, ha a che fare con più grossi stravolgimenti politici interni
ed è costretto a ritirare la sua Grand Armée, in realtà eufemisticamente
chiamata “Contingente limitato di forze sovietiche in Afghanistan”.
Come il ritiro di Napoleone lascia due regni
filo-napoleonici in Italia, appunto il Regno d’Italia e il Regno di Napoli,
anche Gorbaciov lascia in Afghanistan uno stato filo-sovietico retto dal
presidente Najibullah; in entrambi i casi i destini di questi Stati fantoccio sono
segnati in partenza e resistono poco tempo senza il supporto della potenza che
li ha istituiti.
Nel 1992, Najibullah lascia il potere e la
“reazione” guidata dai Mujaheddin riprende il controllo della nazione,
riportando tutto ad un’era pre sovietica, proprio come il Congresso di Vienna aveva
fatto dopo le guerre napoleoniche, riportando grossomodo l’Europa al pre 1789.
Come avvenne in Italia per i moti del 1820-1821
e 1830-1831 che cercavano di stravolgere lo status quo dei regni italiani
dall’interno, anche l’Afghanistan nel 1996 dovette assistere ad un radicale
cambio di regime interno, quando il governo dei Mujaheddin venne sostituito
violentemente con il regime dei Talebani.
Ritornando in Italia nel 1815; ecco che dove
aveva perso il predominio la Francia napoleonica si affrettava ad arrivare
l’Austria o meglio l’Impero Asburgico; come nello scenario centrasiatico moderno
arrivano gli Stati Uniti, storici avversari dell’URSS. Quest’ultima era infatti
già stata piegata nel confronto della “guerra fredda” e poi era implosa
politicamente e si era successivamente disgregata in 15 realtà nazionali, nel
1991; cosa che lasciava gli USA, nel 2001, anno dell’intervento in Afghanistan,
incontrastata guida del mondo, così come l’Austria, piegato Napoleone, divenne
egemone in Europa.
Gli americani, così come a suo tempo avevano
fatto i sovietici, raccolgono subito un esercito di afgani filo-statunitensi e
promettono rapide vittorie e un ancor più rapido sviluppo delle attività
socio-economiche. La realtà sul terreno però è ben diversa; le forze della
coalizione sono osannate da pochi, osteggiate da molti e in generale nessuno in
Afghanistan vede di buon occhio gli stranieri; per questo perdura la guerriglia
costante e implacabile dei Talebani.
Una vera e propria similitudine con la
situazione italiana tra il 1820 e il 1848, dove gli austriaci costantemente
piegano con la forza i moti insurrezionali, ma sempre di nuovi se ne generano
per tutta la penisola, spesso avendo come protagonisti gli italiani all’interno
delle forze armate, anche quelle asburgiche. Come gli Stati Uniti, anche
l’Austria infine cede ma non solo per scontro diretto contro l’avversario
insorgente o gli animosi patrioti; semplicemente lascia la presa a causa di una
congiuntura internazionale che, nel caso appunto degli asburgici era
rappresentato dai vari moti indipendentisti/nazionalisti in corso nell’Impero e
dalla costante situazione di confronto con Prussia, Russia e Francia; mentre
nel caso degli USA nel 2021 era rappresentato dallo scacchiere asiatico (crisi
Taiwan-Cina), europeo (crisi Russo-Ucraina e Repubbliche baltiche), epidemia di
COVID e connessa crisi economica. In entrambi i casi, la superpotenza di turno è
stata presa per stanchezza, data l’ostinazione, degli abitanti dei rispettivi
domini, a governarsi da soli.
ULTERIORI SIMILITUDINI
Leggendo le pagine del Pieri e della sua
“Storia del Risorgimento italiano”, in più occasioni egli narra di come gli
italiani in forza nell’Esercito asburgico, alla prima occasione passassero con
gli insorti italiani, se non addirittura con l’Esercito piemontese. Una cosa
ritenuta quasi normale, tant’è che in alcune occasioni gli imperiali svincolarono
gli ufficiali italiani dal giuramento all’imperatore, lasciandoli liberi di
agire secondo coscienza. Un simile comportamento letto con le “lenti” più
recenti dovute alle esperienze della Seconda Guerra Mondiale ci appare
quantomai singolare. Ritengo altamente improbabile che le forze occupanti del
Terzo Reich in Italia nel 1943-1945 abbiano mai concesso a qualcuno di
raggiungere la Resistenza o le Forze Armate Cobelligeranti.
Per contro, numerosi report delle truppe
della coalizione riportano di “cambi di casacca” frequenti nelle file dell’ANA
(Afghan Natianal Army), ovvero di famiglie sparse su entrambi gli
schieramenti per motivi economici o infine, soldati che telefonavano a parenti dell’altra
fazione per notificare un bombardamento e far sgomberare la popolazione a
premessa di un attacco.
Sicuramente, anche a fine guerra in Afghanistan
i “capi” avranno subito la rappresaglia dei vincitori, ma il grosso della
popolazione si è riunificato dopo quasi 45 anni di guerra ininterrotta; o come
l’Italia dopo la seconda guerra mondiale, dove con l’amnistia Togliatti si è
cercato di pacificare e non di vendicare.
UN’OVVIA CONCLUSIONE
Ribadisco; vorrei mantenere la discussione su
un piano storico-militare, lungi da me paragonare il regime dei Talebani ai
valori dell’Italia risorgimentale, tuttavia una miglior analisi storica
dell’Afghanistan avrebbe potuto portare a differenti valutazioni iniziali e a
diverse conclusioni. Forse un consistente raid o azione rapida e decisiva,
mordi e fuggi dell’Occidente avrebbe potuto poi mantenere una sorta di
deterrenza, con spese enormemente minori e senza spargimento di sangue; ovvero,
inserire una piccola, ma specializzata, componente straniera (statunitense o NATO)
a guida di forze locali, come peraltro avvenuto positivamente nelle fasi
iniziali dell’intervento statunitense; azione che sarebbe stata forse più costo
efficace che mantenere migliaia di uomini sulle montagne afgane.
D’altra parte non era stato proprio Carlo
Angelo Bianco, nei suoi trattati sulla guerra insurrezionale (asimmetrica) a
indicare come fosse impossibile per una potenza, per quanto armata,
equipaggiata e forte, vincere su una popolazione desiderosa di battersi per
l’indipendenza? Nel lungo periodo l’occupante sarebbe stato destinato a
soccombere.
Se l’Italia risorgimentale raccoglieva sempre
più proseliti alla causa dell’Indipendenza, dapprima solo borghesi, ma poi
anche fasce più basse di cittadini e infine la popolazione tutta, fino a
mettere in crisi il confinante impero Asburgico, come potevano non farcela gli
afgani, forti peraltro di aver sconfitto britannici e sovietici, a non battere
gli Stati Uniti e l’Occidente? Questi per di più lontani mille miglia dalla
Madrepatria con un grande sforzo logistico per mantenere un Esercito in armi in
Asia centrale.
Il mio parallelo tra Francia napoleonica/Unione
Sovietica e tra Impero Asburgico/Stati Uniti si esaurisce al periodo risorgimentale,
pertanto non considero la prima guerra mondiale, glorioso periodo durante il
quale il Regno d’Italia, in un confronto peer-to-peer, ha sconfitto
definitivamente l’Impero Asburgico e suggellato, il 4 novembre 1918, l’Unità
d’Italia. Un evento quindi non accostabile alla situazione centrasiatica, a meno
che l’Afghanistan non decida di attaccare la Russia o gli Stati Uniti…e
batterli!
Tuttavia, data la celerità e la confusione con
cui le potenze occidentali hanno lasciato le guarnigioni dell’Afghanistan
verrebbe proprio da dire: “I resti di quello che fu uno dei più potenti
eserciti del mondo, risalgono in disordine e senza speranza, le rampe degli
aerei da trasporto che avevano disceso con orgogliosa sicurezza”.
LA STORIA CI HA INGANNATI?
Tornando alla domanda del capitano francese, “Dobbiamo
forse pensare che la storia ci abbia ingannati (in Afghanistan)?” o
forse non siamo stati in grado di capire
quello che ci voleva dire e applicare le preziose lezioni del Risorgimento che,
sebbene a livelli differenti, dovrebbero essere patrimonio comune di ogni
italiano.
Ma in realtà cosa sappiamo esattamente del
Risorgimento e ancora, cosa ne abbiamo capito? Se avessimo carpito i punti
salienti, ossia che un popolo che si vuole affrancare dal giogo straniero ed è
concorde, prima o poi ci riesce; peraltro come avvenuto nella totalità di casi
simili perlomeno nel XIX secolo, forse non saremmo partiti così baldanzosi per
l’Afghanistan. Perché non avrebbe dovuto infine trionfare la guerriglia afgana
che aveva comunque già sconfitto Britannici e Sovietici? Vero è che noi avevamo
nobilissimi propositi ma forse, se mai avessimo potuto fare due chiacchiere col
Radetzky ci avrebbe chiaramente enunciato i suoi altrettanto nobili intenti nel
pacificare il Regno Lombardo-Veneto.
Sicuramente non è quel glorioso periodo che è
il Risorgimento ad averci ingannati, ma delle sue preziose lezioni su come
abbiamo costruito la Patria poco ci resta come patrimonio culturale se non una
serie di nomi come Mazzini, Cavour, Garibaldi, Pastrengo, Goito, Custoza e
altri, forse oggi più noti come vie di centri storici italiani e che attirano
il nostro interesse, non in base all’eroismo o all’epicità degli eventi
occorsi, ma piuttosto in base al fatto che ci sia una telecamera che sorveglia
la locale zona a traffico limitato.
Andrea LOPREIATO
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