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BLOG DI RIFERIMENTO DELLE ATTIVITA' DEL GRUPPO "STUDENTI E CULTORI DELLA MATERIA" CHE SI E'AGGREGATO PER STUDIARE LE TEMATICHE INERENTI I VARI PERCORSI DI FORMAZIONE PERSONALE. IL GRUPPO NASCE NEL 2009 E DOPO L'APRILE 2013 SI E' APERTA ANCHE ALLA RICERCA ED APPROFONDIMENTO UNIVERSITARIO E POST DOTTORALE.SUSSIDIO DIDATTICO AI MASTER ATTIVATI. Spazio esterno del CESVAM per le relazione esterne (Curatore. Massimo Coltrinari. Info:didattica.cesvam@istitutonastroazzurro.org)
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mercoledì 28 giugno 2017
Riflessioni sulle elezioni francesi
Lezioni francesi Il collegio uninominale in epoca post-ideologica Alessandro Miglioli 26/06/2017 |
Le elezioni politiche francesi si sono concluse consegnando al Paese uno scenario inimmaginabile fino a quaranta giorni or sono. La République en Marche!, Il partito del recentemente eletto presidente Emmanuel Macron, ha riportato una vittoria per cui la locuzione “a valanga” risulta quanto mai letterale.
All’indomani del primo turno l’11 giugno, le proiezioni davano a Macron circa il 70% dei seggi e, nonostante il secondo turno il 18 giugno gli abbia poi consegnato una maggioranza più contenuta (di poco superiore al 60%), il risultato del nuovo movimento centrista rimane impressionante.
Per capire quanto questo evento fosse inatteso, basti pensare che all’indomani delle elezioni presidenziali del 7 maggio gli analisti francesi si interrogavano su quale partito sarebbe stato cercato da Macron come alleato di governo, perché il mancato conseguimento di una maggioranza parlamentare veniva quasi dato per scontato.
Punti di forza e di debolezza
Gli stessi analisti oggi si interrogano sulle ragioni politiche del successo di Macron, sui suoi punti di forza e su quelli di debolezza dei suoi avversari. Nel compiere questa azione, però, complice forse il fatto di essere troppo inseriti nel contesto francese, o ad esso abituati, dimenticano di osservare la reale causa di questo exploit: il sistema elettorale francese stesso, basato sui collegi uninominali.
Un collegio uninominale è, sostanzialmente, una piccola area geografica, nella quale si svolge una competizione elettorale fra vari candidati per un singolo posto da parlamentare. Chi ottiene più voti ha il posto; tutti gli altri, indipendentemente dalle loro percentuali, non sono eletti.
Nonostante una strategia assolutamente vincente, infatti, Macron non ha ottenuto che il 32% dei voti espressi al primo turno, quello in cui tutti i partiti sono presenti. Ancora una volta, certamente un risultato positivo, ma ben lontano dal 61% dei seggi parlamentari conquistati dal suo partito, specialmente considerando che la partecipazione alle elezioni ha fatto registrare un record in negativo, con ben il 51% degli astenuti.
Francia e Regno Unito a confronto
I collegi uninominali però, non possono da soli spiegare questo risultato. Un perfetto metro di paragone sono le elezioni britanniche, avvenute giusto tre giorni prima di quelle francesi.
Al di là della Manica infatti, dove vige un sistema elettorale non dissimile, basato anch’esso sui collegi uninominali, il partito di Theresa May ha fallito l’obiettivo del 50% dei seggi parlamentari, pur riportando una percentuale di voti ben più alta (42,2%) del partito di Macron.
Qual è dunque la differenza fra i due casi in esame? In una parola, l’omogeneità del corpo elettorale francese.
Se nel Regno Unito abbiamo infatti aree rurali a vocazione conservatrice, grandi metropoli fortemente progressiste e ampie aree abitate da minoranze etniche dall’identità politica ben definita, in Francia, pur sussistendo differenze storiche fra un ovest più di sinistra ed un est più di destra, nessun partito può più contare sul controllo esclusivo di zone con maggioranze definite.
Il 42% della May era concentrato in relativamente poche constituencies, con maggioranze assolute, il 32% di Macron invece ha reso possibile, in uno stato con spinte identitarie decisamente più contenute, l’ottenimento di una semplice maggioranza relativa nella stragrande parte dei collegi, comunque sufficiente a vedere i suoi parlamentari eletti.
La situazione italiana
Visto il ritorno in auge, nell’ultimo periodo, dell’infinito discorso su una nuova legge elettorale, forse anche noi italiani possiamo apprendere qualcosa da questo confronto sincronico.
Nonostante i partiti italiani abbiano potuto storicamente godere di zone “a controllo esclusivo”, simili in qualche misura a quelle esistenti in Gran Bretagna, la tendenza da parte delle forze politiche negli ultimi anni è quella di cercare un’immagine il più ecumenica possibile.
Il centrodestra berlusconiano ha costruito la sua fortuna, dalla discesa in campo nel ‘94, sul corteggiamento dell’italianomedio; il centrosinistra negli ultimi anni ha abbracciato posizioni sempre più moderate, nel tentativo di conquistare consensi trasversali, a parziale discapito del suo controllo delle regioni rosse; la Lega ha ormai da anni abbandonato la sua vocazione originaria di partito etnico-regionale; ed il M5S basa gran parte della sua opera di convincimento e propaganda sul web, luogo per definizione staccato dalle particolarità geografiche.
Una transizione da ‘britannica’ a ‘francese’
La politica italiana sembra dunque trovarsi in una fase di transizione da una situazione simile a quella britannica verso una più “alla francese”. Se accettiamo l’assunto che, al netto delle preferenze personali per questo o quel partito, la possibile assegnazione del 61% dei seggi ad un partito che abbia conseguito il 32% dei voti è un evento indesiderabile in democrazia, forse dovremo allora interrogarci sulla bontà di questo sistema.
A questo fatto va aggiunta la considerazione che, in uno stato in cui il voto di scambio è sovente, e tristemente, all’ordine del giorno, la creazione di piccole aree facilmente trasformabili in ‘feudi’ dal politico di turno, potrebbe diventare un rischio per lo stesso funzionamento democratico delle elezioni, prima ancora che per il risultato delle stesse.
Il fallimento parlamentare degli ultimi giorni ha riguardato una legge elettorale con collegi uninominali alla tedesca, ulteriore meccanismo che tramite un combinato disposto di sistema maggioritario e proporzionale avrebbe notevolmente mitigato i possibili effetti di sovra-rappresentazione. Questa poteva essere forse una via più ragionevole, ma l’intesa per la sua realizzazione pare ormai definitivamente tramontata.
I governi monocolore non rappresentano intrinsecamente un rischio per la democrazia, ma la loro legittimità si dovrebbe basare su un ampio consenso elettorale. Il sistema dei collegi uninominali, in Francia, ha ampiamente dimostrato di non potere garantire questa legittimità.
Alessandro Miglioli è laureato all'Università di Bologna in sviluppo e cooperazione internazionale.
All’indomani del primo turno l’11 giugno, le proiezioni davano a Macron circa il 70% dei seggi e, nonostante il secondo turno il 18 giugno gli abbia poi consegnato una maggioranza più contenuta (di poco superiore al 60%), il risultato del nuovo movimento centrista rimane impressionante.
Per capire quanto questo evento fosse inatteso, basti pensare che all’indomani delle elezioni presidenziali del 7 maggio gli analisti francesi si interrogavano su quale partito sarebbe stato cercato da Macron come alleato di governo, perché il mancato conseguimento di una maggioranza parlamentare veniva quasi dato per scontato.
Punti di forza e di debolezza
Gli stessi analisti oggi si interrogano sulle ragioni politiche del successo di Macron, sui suoi punti di forza e su quelli di debolezza dei suoi avversari. Nel compiere questa azione, però, complice forse il fatto di essere troppo inseriti nel contesto francese, o ad esso abituati, dimenticano di osservare la reale causa di questo exploit: il sistema elettorale francese stesso, basato sui collegi uninominali.
Un collegio uninominale è, sostanzialmente, una piccola area geografica, nella quale si svolge una competizione elettorale fra vari candidati per un singolo posto da parlamentare. Chi ottiene più voti ha il posto; tutti gli altri, indipendentemente dalle loro percentuali, non sono eletti.
Nonostante una strategia assolutamente vincente, infatti, Macron non ha ottenuto che il 32% dei voti espressi al primo turno, quello in cui tutti i partiti sono presenti. Ancora una volta, certamente un risultato positivo, ma ben lontano dal 61% dei seggi parlamentari conquistati dal suo partito, specialmente considerando che la partecipazione alle elezioni ha fatto registrare un record in negativo, con ben il 51% degli astenuti.
Francia e Regno Unito a confronto
I collegi uninominali però, non possono da soli spiegare questo risultato. Un perfetto metro di paragone sono le elezioni britanniche, avvenute giusto tre giorni prima di quelle francesi.
Al di là della Manica infatti, dove vige un sistema elettorale non dissimile, basato anch’esso sui collegi uninominali, il partito di Theresa May ha fallito l’obiettivo del 50% dei seggi parlamentari, pur riportando una percentuale di voti ben più alta (42,2%) del partito di Macron.
Qual è dunque la differenza fra i due casi in esame? In una parola, l’omogeneità del corpo elettorale francese.
Se nel Regno Unito abbiamo infatti aree rurali a vocazione conservatrice, grandi metropoli fortemente progressiste e ampie aree abitate da minoranze etniche dall’identità politica ben definita, in Francia, pur sussistendo differenze storiche fra un ovest più di sinistra ed un est più di destra, nessun partito può più contare sul controllo esclusivo di zone con maggioranze definite.
Il 42% della May era concentrato in relativamente poche constituencies, con maggioranze assolute, il 32% di Macron invece ha reso possibile, in uno stato con spinte identitarie decisamente più contenute, l’ottenimento di una semplice maggioranza relativa nella stragrande parte dei collegi, comunque sufficiente a vedere i suoi parlamentari eletti.
La situazione italiana
Visto il ritorno in auge, nell’ultimo periodo, dell’infinito discorso su una nuova legge elettorale, forse anche noi italiani possiamo apprendere qualcosa da questo confronto sincronico.
Nonostante i partiti italiani abbiano potuto storicamente godere di zone “a controllo esclusivo”, simili in qualche misura a quelle esistenti in Gran Bretagna, la tendenza da parte delle forze politiche negli ultimi anni è quella di cercare un’immagine il più ecumenica possibile.
Il centrodestra berlusconiano ha costruito la sua fortuna, dalla discesa in campo nel ‘94, sul corteggiamento dell’italianomedio; il centrosinistra negli ultimi anni ha abbracciato posizioni sempre più moderate, nel tentativo di conquistare consensi trasversali, a parziale discapito del suo controllo delle regioni rosse; la Lega ha ormai da anni abbandonato la sua vocazione originaria di partito etnico-regionale; ed il M5S basa gran parte della sua opera di convincimento e propaganda sul web, luogo per definizione staccato dalle particolarità geografiche.
Una transizione da ‘britannica’ a ‘francese’
La politica italiana sembra dunque trovarsi in una fase di transizione da una situazione simile a quella britannica verso una più “alla francese”. Se accettiamo l’assunto che, al netto delle preferenze personali per questo o quel partito, la possibile assegnazione del 61% dei seggi ad un partito che abbia conseguito il 32% dei voti è un evento indesiderabile in democrazia, forse dovremo allora interrogarci sulla bontà di questo sistema.
A questo fatto va aggiunta la considerazione che, in uno stato in cui il voto di scambio è sovente, e tristemente, all’ordine del giorno, la creazione di piccole aree facilmente trasformabili in ‘feudi’ dal politico di turno, potrebbe diventare un rischio per lo stesso funzionamento democratico delle elezioni, prima ancora che per il risultato delle stesse.
Il fallimento parlamentare degli ultimi giorni ha riguardato una legge elettorale con collegi uninominali alla tedesca, ulteriore meccanismo che tramite un combinato disposto di sistema maggioritario e proporzionale avrebbe notevolmente mitigato i possibili effetti di sovra-rappresentazione. Questa poteva essere forse una via più ragionevole, ma l’intesa per la sua realizzazione pare ormai definitivamente tramontata.
I governi monocolore non rappresentano intrinsecamente un rischio per la democrazia, ma la loro legittimità si dovrebbe basare su un ampio consenso elettorale. Il sistema dei collegi uninominali, in Francia, ha ampiamente dimostrato di non potere garantire questa legittimità.
Alessandro Miglioli è laureato all'Università di Bologna in sviluppo e cooperazione internazionale.
mercoledì 21 giugno 2017
McMaster prevale nella strategia Usa
Incremento truppe Usa Afghanistan: la strategia opaca di Trump Ludovico De Angelis 19/06/2017 |
Dopo più di 15 anni dall’invasione statunitense, l’Afghanistan è ancora un cumulo di macerie, mentre Donald Trump pensa a un incremento di circa 4000 nuove truppe Usa nel Paese.
Nella capitale Kabul, recentemente, uno degli attentati più brutali compiuti dall’inizio dell’operazione Enduring Freedom ha causato 85 morti ed oltre 400 feriti, palesando per l’ennesima volta la vulnerabilità disarmante del governo centrale nei confronti degli insorti. Nonostante il principale portavoce talebano abbia smentito il coinvolgimento del gruppo, si crede che dietro l’atto brutale possa trovarsi l’influente rete Haqqani, alleato storico dei talebani oggi guidati da Hibatullah Akhundzada.
Avvolto in una coltre di insicurezza endemica, l’Afghanistan è oggi in cima alla classifica dei luoghi più pericolosi del globo, emblema di una situazione securitaria volatile ed imprevedibile a cui anche il terzo presidente statunitense da quando è iniziata la missione è chiamato a dare una risposta.
Più truppe dopo la Moab
A fronte di tale macabra realtà, l’amministrazione Trump ha recentemente vociferato un aumento di alcune migliaia di unità presenti sul territorio, annuendo anche ad un aumento delle truppe di stanza nel Paese degli una volta vituperati alleati della Nato.Tale strategia, che ha già ricevuto alcune critiche in Afghanistan, è considerata figlia del consulente per la sicurezza nazionale del presidente, il generale McMaster, uomo che rappresenterebbe la crescente influenza del Pentagono nel processo decisionale della politica estera di Washington.
Al momento, però, ci troviamo in una fase di stallo: difatti, all’interno del gabinetto di guerra di Trump, sussisterebbero ancora delle divisioni tra militari ed apparato civile, con il controverso Steve Bannon - il capo stratega della Casa Bianca simbolo delle pretese di quest’ultima fazione - che avrebbe manifestato delle perplessità in merito ad un incremento di truppe americane, nel timore che tale iniziativa possa comportare un logorante ed impegnativo esercizio di state-building, storico spauracchio dei conservatori Usa.
Dall’inizio dell’era Trump, l’unico sussulto dell’interesse statunitense per l’Afghanistan è stato rappresentato dal lancio della madre di tutte le bombe, la Moab, il 13 aprile nel distretto est di Achin, con l’obiettivo di distruggere un tunnel utilizzato dal sedicente Stato islamico del Khorasan, il gruppo jihadista di ex talebani che hanno aderito al Califfato. L’ordigno, che ha avuto lo scopo di flettere i muscoli della potenza militare americana, ha inviato un deciso messaggio ai governi di tutto il mondo.
Tuttavia, la GBU-43 – l’ordigno non nucleare più potente presente nell’arsenale Usa - non ha offerto una soluzione fattibile, solida e duratura ai quasi quarant’anni di instabilità del Paese, riportandoci semmai dritti al fulcro della questione afghana contemporanea: ovvero, che la pace nel “cimitero degli imperi” non potrà essere raggiunta esclusivamente militarmente, ma dovrà principalmente passare per uno sforzo politico di riconciliazione su scala nazionale. Un’impresa attualmente considerata mastodontica.
Se l’obiettivo dell’aumento delle truppe è quello di portare i talebani al tavolo dei negoziati, infatti, sappiamo già che lo stesso Barack Obama fallì in una tale avventura durante gli anni della surge (2009-2012), periodo in cui le forze presenti sul territorio afghano aumentarono sino a raggiungere circa 100.000 combattenti.
Per tale ragione, lo sparuto incremento di unità voluto da Trump sembrerebbe essere giustificato più che altro dalla volontà e dalla necessità di rinvigorire, dopo le recenti sconfitte, le capacità militari del governo di Kabul, favorendo la riconquista di alcune porzioni di terra.
Washington pensa ai minerali afghani
Tuttavia, i dubbi su tale approccio permangono: infatti, anche se questa strategia portasse a delle effettive vittorie belliche, l’annoso problema del consolidamento del controllo sul territorio attraverso un miglioramento delle capacità di governance del Paese, a dir poco claudicanti, permarrebbe.
Ma ciò non sembra interessare al momento l’amministrazione repubblicana che, per ciò che invece concerne un’alternativa politica per raggiungere la pace, si èlimitata a menzionare la necessità di puntare sul settore dei minerali del Paese (che ha sì strabilianti depositi per un trilione di dollari, ma che risulta altrettanto straordinariamente corrotto).
Questa particolare attenzione potrebbe derivare da una vicinanza di Trump alla causa delle industrie minerarie statunitensi, che vedrebbero nell’Afghanistan potenziali margini di guadagno: frenando gli entusiasmi, alcuni commentatori hanno però già fatto notare come prima di affidare ai minerali il futuro di Kabul, bisognerebbe togliere dal controllo degli attori non statali l’80% per cento delle miniere presenti nel territorio.
Nel mezzo di questa evidente incertezza americana, ad aprile la Russia ha indetto una conferenza sul futuro dell’Afghanistan con gli attori regionali interessati, alla quale Stati Uniti, Onu e Unione europea non hanno partecipato. Date le circostanze, non è oggi da escludere che il destino della difficile pace afghana passi per Mosca, che ha iniziato a vedere nei talebani una pedina contro il jihadismo transnazionale e la Nato.
Le sfide all’orizzonte
La popolazione afghana si ritrova oggi intrappolata in una spirale soffocante di estrema insicurezza: dal 2007 ad oggi il Paese si è classificato nei primi tre posti al mondo per numero di attentati terroristici, e se nel 2015 il governo centrale influenzava o controllava il 72% del territorio, oggi tale percentuale si è ridotta al 52%.
Inoltre, da una scissione dei talebani pachistani ed afghani è nata nel 2015 Isis-Khorasan che, seppur contando attorno ai 1.600 elementi (le milizie talebane sono invece 40.000) ed avendo subito pesanti sconfitte negli ultimi mesi, ha dimostrato di saper compiere attacchi brutali sia in territorio afghano sia pakistano.
Questi dati si riflettono nei risultati di approfondite ricerche sulla percezione degli afghani in relazione al loro Paese, le quali nell’ultimo triennio hanno registrato un vertiginoso declino in negativo. Il 65% della popolazione crede che il Paese vada nella direzione sbagliata per tre ragioni, che rispecchiano anche le maggiori sfide dei prossimi anni: la precaria situazione securitaria, l’elevato tasso di disoccupazione ed una corruzione rampante (posizionandosi 169esimo su 175 nel mondo, nella celebre classifica di Transparency International).
Pace: sentiero politico, non solo militare
Le fondamenta della stabilità, ed anche la fiducia dei cittadini nei confronti del governo centrale e delle sue ramificazioni locali, verranno gettate quando si capirà che la soluzione militare è parte di un processo politico ben più ampio.
Bisogna proporre un’iniziativa che includa necessariamente le fazioni talebane meno radicali nel processo di pace, delegittimando quelle più estremiste attraverso il miglioramento delle capacità di governance dello Stato, aumentando la sicurezza, rafforzando il potere giudiziario e diminuendo drasticamente la corruzione - definita causticamente dalla missione Onu in Afghanistan come “l’altro campo di battaglia” del governo di Kabul -, che si riproduce anche a causa dei traffici illeciti d’oppio, la produzione del quale (vitale per il sostentamento quotidiano di molti) ha pure fatto registrare una crescita del 10% nell’ultimo anno.
Ludovico De Angelis studia Relazioni Internazionali ed ha effettuato un tirocinio presso lo IAI ed il Ministero degli Affari Esteri.
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Nella capitale Kabul, recentemente, uno degli attentati più brutali compiuti dall’inizio dell’operazione Enduring Freedom ha causato 85 morti ed oltre 400 feriti, palesando per l’ennesima volta la vulnerabilità disarmante del governo centrale nei confronti degli insorti. Nonostante il principale portavoce talebano abbia smentito il coinvolgimento del gruppo, si crede che dietro l’atto brutale possa trovarsi l’influente rete Haqqani, alleato storico dei talebani oggi guidati da Hibatullah Akhundzada.
Avvolto in una coltre di insicurezza endemica, l’Afghanistan è oggi in cima alla classifica dei luoghi più pericolosi del globo, emblema di una situazione securitaria volatile ed imprevedibile a cui anche il terzo presidente statunitense da quando è iniziata la missione è chiamato a dare una risposta.
Più truppe dopo la Moab
A fronte di tale macabra realtà, l’amministrazione Trump ha recentemente vociferato un aumento di alcune migliaia di unità presenti sul territorio, annuendo anche ad un aumento delle truppe di stanza nel Paese degli una volta vituperati alleati della Nato.Tale strategia, che ha già ricevuto alcune critiche in Afghanistan, è considerata figlia del consulente per la sicurezza nazionale del presidente, il generale McMaster, uomo che rappresenterebbe la crescente influenza del Pentagono nel processo decisionale della politica estera di Washington.
Al momento, però, ci troviamo in una fase di stallo: difatti, all’interno del gabinetto di guerra di Trump, sussisterebbero ancora delle divisioni tra militari ed apparato civile, con il controverso Steve Bannon - il capo stratega della Casa Bianca simbolo delle pretese di quest’ultima fazione - che avrebbe manifestato delle perplessità in merito ad un incremento di truppe americane, nel timore che tale iniziativa possa comportare un logorante ed impegnativo esercizio di state-building, storico spauracchio dei conservatori Usa.
Dall’inizio dell’era Trump, l’unico sussulto dell’interesse statunitense per l’Afghanistan è stato rappresentato dal lancio della madre di tutte le bombe, la Moab, il 13 aprile nel distretto est di Achin, con l’obiettivo di distruggere un tunnel utilizzato dal sedicente Stato islamico del Khorasan, il gruppo jihadista di ex talebani che hanno aderito al Califfato. L’ordigno, che ha avuto lo scopo di flettere i muscoli della potenza militare americana, ha inviato un deciso messaggio ai governi di tutto il mondo.
Tuttavia, la GBU-43 – l’ordigno non nucleare più potente presente nell’arsenale Usa - non ha offerto una soluzione fattibile, solida e duratura ai quasi quarant’anni di instabilità del Paese, riportandoci semmai dritti al fulcro della questione afghana contemporanea: ovvero, che la pace nel “cimitero degli imperi” non potrà essere raggiunta esclusivamente militarmente, ma dovrà principalmente passare per uno sforzo politico di riconciliazione su scala nazionale. Un’impresa attualmente considerata mastodontica.
Se l’obiettivo dell’aumento delle truppe è quello di portare i talebani al tavolo dei negoziati, infatti, sappiamo già che lo stesso Barack Obama fallì in una tale avventura durante gli anni della surge (2009-2012), periodo in cui le forze presenti sul territorio afghano aumentarono sino a raggiungere circa 100.000 combattenti.
Per tale ragione, lo sparuto incremento di unità voluto da Trump sembrerebbe essere giustificato più che altro dalla volontà e dalla necessità di rinvigorire, dopo le recenti sconfitte, le capacità militari del governo di Kabul, favorendo la riconquista di alcune porzioni di terra.
Washington pensa ai minerali afghani
Tuttavia, i dubbi su tale approccio permangono: infatti, anche se questa strategia portasse a delle effettive vittorie belliche, l’annoso problema del consolidamento del controllo sul territorio attraverso un miglioramento delle capacità di governance del Paese, a dir poco claudicanti, permarrebbe.
Ma ciò non sembra interessare al momento l’amministrazione repubblicana che, per ciò che invece concerne un’alternativa politica per raggiungere la pace, si èlimitata a menzionare la necessità di puntare sul settore dei minerali del Paese (che ha sì strabilianti depositi per un trilione di dollari, ma che risulta altrettanto straordinariamente corrotto).
Questa particolare attenzione potrebbe derivare da una vicinanza di Trump alla causa delle industrie minerarie statunitensi, che vedrebbero nell’Afghanistan potenziali margini di guadagno: frenando gli entusiasmi, alcuni commentatori hanno però già fatto notare come prima di affidare ai minerali il futuro di Kabul, bisognerebbe togliere dal controllo degli attori non statali l’80% per cento delle miniere presenti nel territorio.
Nel mezzo di questa evidente incertezza americana, ad aprile la Russia ha indetto una conferenza sul futuro dell’Afghanistan con gli attori regionali interessati, alla quale Stati Uniti, Onu e Unione europea non hanno partecipato. Date le circostanze, non è oggi da escludere che il destino della difficile pace afghana passi per Mosca, che ha iniziato a vedere nei talebani una pedina contro il jihadismo transnazionale e la Nato.
Le sfide all’orizzonte
La popolazione afghana si ritrova oggi intrappolata in una spirale soffocante di estrema insicurezza: dal 2007 ad oggi il Paese si è classificato nei primi tre posti al mondo per numero di attentati terroristici, e se nel 2015 il governo centrale influenzava o controllava il 72% del territorio, oggi tale percentuale si è ridotta al 52%.
Inoltre, da una scissione dei talebani pachistani ed afghani è nata nel 2015 Isis-Khorasan che, seppur contando attorno ai 1.600 elementi (le milizie talebane sono invece 40.000) ed avendo subito pesanti sconfitte negli ultimi mesi, ha dimostrato di saper compiere attacchi brutali sia in territorio afghano sia pakistano.
Questi dati si riflettono nei risultati di approfondite ricerche sulla percezione degli afghani in relazione al loro Paese, le quali nell’ultimo triennio hanno registrato un vertiginoso declino in negativo. Il 65% della popolazione crede che il Paese vada nella direzione sbagliata per tre ragioni, che rispecchiano anche le maggiori sfide dei prossimi anni: la precaria situazione securitaria, l’elevato tasso di disoccupazione ed una corruzione rampante (posizionandosi 169esimo su 175 nel mondo, nella celebre classifica di Transparency International).
Pace: sentiero politico, non solo militare
Le fondamenta della stabilità, ed anche la fiducia dei cittadini nei confronti del governo centrale e delle sue ramificazioni locali, verranno gettate quando si capirà che la soluzione militare è parte di un processo politico ben più ampio.
Bisogna proporre un’iniziativa che includa necessariamente le fazioni talebane meno radicali nel processo di pace, delegittimando quelle più estremiste attraverso il miglioramento delle capacità di governance dello Stato, aumentando la sicurezza, rafforzando il potere giudiziario e diminuendo drasticamente la corruzione - definita causticamente dalla missione Onu in Afghanistan come “l’altro campo di battaglia” del governo di Kabul -, che si riproduce anche a causa dei traffici illeciti d’oppio, la produzione del quale (vitale per il sostentamento quotidiano di molti) ha pure fatto registrare una crescita del 10% nell’ultimo anno.
Ludovico De Angelis studia Relazioni Internazionali ed ha effettuato un tirocinio presso lo IAI ed il Ministero degli Affari Esteri.
lunedì 19 giugno 2017
Francia: verso nuovi orizzonti politici
domenica 18 giugno 2017
Egitto: un nodo da sciogliere per l'Italia
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Un cittadino italiano viene sequestrato, torturato, ucciso sul territorio italiano. La macchina investigativa e giudiziaria si mette in moto. Vengono individuati, attraverso indizi e anche prove, alcuni dei responsabili e viene definita la linea di comando che ha deciso il delitto.
Non esiste prescrizione per reati di tale entità: investigatori e magistrati faranno il loro dovere, ci sarà un processo, una condanna. Con tempi spesso lunghi. La macchina della ricerca della verità e della giustizia, in ogni caso, non verrà interrotta per motivi di realismo politico. Almeno, non formalmente. Perché dovrebbe essere diverso per un cittadino italiano vittima di un delitto dello stesso tipo, commesso però all’estero? Perché la politica estera dovrebbe decidere - si badi bene, senza alcun mandato costituzionale e legislativo - una prescrizione de facto? Sono domande, queste, non puramente teoriche. Riguardano uomini e donne in carne e ossa. Riguardano, come si può facilmente comprendere, la vicenda di cui è stato vittima un cittadino italiano di nome Giulio Regeni, sequestrato, torturato e ucciso al Cairo nel 2016, nella settimana che corre tra la sua scomparsa (il 25 gennaio) e il ritrovamento del suo corpo senza vita, il 3 febbraio successivo. Giustizia o convenienza Se il delitto fosse stato compiuto in Italia, nessuno avrebbe posto una minima questione di realpolitik. Questione che, invece, viene posta da oltre un anno per la vicenda di Giulio Regeni. Come se i diritti fossero a corrente alternata. Come se la difesa di un cittadino italiano si dovesse attenere a standard diversi a seconda del luogo in cui il reato è stato commesso. In Italia, la giustizia. All’estero, la convenienza. La politica però, si risponde in questo caso, è l’arte del compromesso, soprattutto quando è in gioco il ruolo di un Paese, come l’Italia, in un quadrante così complesso come il Mediterraneo. Gli interessi sono interessi strategici, dicono coloro che - da oltre un anno, a intervalli regolari - chiedono il ritorno del nostro ambasciatore al Cairo, richiamato per consultazioni nell’aprile 2016 (posizione recentemente ribadita su queste colonne da Ugo Tramballi, ndr). A rientrare a Roma, poco più di un anno fa, fu l’ambasciatore Maurizio Massari, protagonista di un percorso diplomatico che ci dovrebbe già dire molto: la sua fermezza (è ovviamente una ipotesi di chi scrive) è stata fondamentale almeno per riuscire ad avere il corpo di Giulio Regeni, che molto probabilmente sarebbe scomparso come quello di migliaia di desaparecidos egiziani di cui non si sa nulla dall’ascesa al potere, nel 2013, di Abdel Fattah al Sisi. A ritornare al Cairo, dovrebbe essere invece Giampaolo Cantini, nel frattempo designato ambasciatore in Egitto, uno dei nostri migliori diplomatici, con una esperienza profonda del Mediterraneo, dall’incarico di ambasciatore in Algeria passando per il periodo come bravissimo console generale a Gerusalemme (periodo sin troppo breve, appena undici mesi, prima di essere chiamato a Roma a dirigere l’ufficio della Cooperazione italiana). La mossa del governo Ora, perché la questione del ritorno dell’ambasciatore al Cairo è così importante? Perché la politica estera è fatta anche di gesti, e i gesti hanno un preciso significato. L’unico vero atto politico compiuto dai governi italiani - prima quello a guida Renzi poi quello a guida Gentiloni - è stato proprio il ritiro del nostro ambasciatore, per dare un forte segnale agli egiziani e spingere per frenare le innumerevoli e patetiche ‘verità’ proposte da investigatori e governanti del Cairo. Se ci si riflette con attenzione, Roma ha fatto solo questo: ha soltanto ritirato l’ambasciatore. Non ha fatto, almeno non l’ha fatto in maniera ufficiale, altre mosse per spingere sul regime di al Sisi. Il governo italiano non ha chiesto una pressione comune dell’Unione europea verso l’Egitto, nonostante Giulio fosse cittadino italiano e studente internazionale in un ateneo di un Paese europeo, dunque portatore di diritti che devono essere difesi anche dagli altri paesi aderenti all’Ue. Se non vi fosse stata una rappresentanza italiana al Cairo, per esempio, la difesa di Regeni sarebbe stata presa in carico da una delle ambasciate dell’Ue presenti in Egitto. Realpolitik: interessi economici vs diritti individuali E arriviamo, così, alla questione dei nostri rapporti economici con l’Egitto. Rapporti importanti, imponenti. Nel 2016 il nostro export è arrivato a 3 miliardi di euro. Abbiamo interessi petroliferi, bancari, manifatturieri. In Egitto non ci sono solo Eni ed Edison, c’è una società dell’Ital Cementi, perché il cemento è un altro degli affari d’oro nell’importante Paese arabo. Dunque, secondo la lettura ‘realista’, i diritti di un cittadino italiano debbono piegarsi agli interessi dello Stato italiano. Agli interessi economici, per la precisione. È davvero così? Io credo di no. E non solo perché, dal punto di vista delle garanzie al cittadino, lo Stato non può avere una posizione diversa da quella della difesa e della giustizia senza prescrizione. Credo anche che gli interessi economici tra Egitto e Italia siano già tutelati non solo dalla nostra macchina diplomatica, ma anche (se non soprattutto) da quella diplomazia non ufficiale che l’Eni esercita in tutti i Paesi in cui è presente. In Egitto, in primis, dove l’Ente nazionale idrocarburi è presente da mezzo secolo. Chi ha vissuto al Cairo sa bene quanto l’Eni esercitasse ed eserciti un ruolo tutto suo, non solo con la presenza dei suoi dirigenti in loco, ma con un tessuto fatto di tecnici, di investimenti non solo petroliferi, di esperti, di rapporti diretti con la macchina amministrativa egiziana. Con o senza la presenza dell’ambasciatore italiano al Cairo. Un’assenza che non danneggia il Paese L’assenza del nostro ambasciatore, in sostanza, non danneggia i nostri interessi in Egitto. Non c’è il nostro rappresentante diplomatico, ma c’è l’ambasciata. Gli interessi dei nostri connazionali che vivono al Cairo sono protetti. Perché a proteggerli è, per competenza, il consolato, deputato alla tutela dei nostri cittadini. Chi ha vissuto all’estero sa che la diplomazia è fatta di persone e di meccanismi. In mancanza di un ambasciatore, la struttura dell’ambasciata e del consolato continua a funzionare. Come sempre. L’assenza del nostro ambasciatore, però, segnala che non è business as usual tra Italia ed Egitto. Segnala, attraverso la freddezza dei rapporti, che non si può passare sopra a un omicidio di Stato, e a un omicidio commesso in un Paese retto da un regime profondamente compromesso dal punto di vista delle violazioni dei diritti umani e civili. Tra i 40mila e i 60mila detenuti politici, a seconda delle fonti. Centinaia di desaparecidos. Libertà di stampa ai minimi storici. E cittadini egiziani fatti oggetto di pressioni illegali durante la loro presenza in Italia, come successo recentemente a Roma, quando alcuni intellettuali egiziani sono stati molestati da agenti dell’intelligence del Cairo. La dignità di Giulio vale più dell’interscambio commerciale Di fondo, comunque, la domanda è una e una sola. Quanto valgono la vita, la dignità, i diritti di un cittadino italiano? I cinque miliardi del nostro interscambio con l’Egitto? Non è un po’ poco? Perché la difesa della dignità di Giulio Regeni, violata sin troppe volte in questi sedici mesi, ha un prezzo ben più alto dell’interscambio tra Italia ed Egitto. Non riuscire a difendere la dignità di Giulio Regeni significa non difendere lo Stato di diritto italiano, e neanche il ruolo dell’Italia nel Mediterraneo, nella regione araba, nel grande Medio Oriente. Non è chinando il capo ai rinvii del regime egiziano che si riusciranno a difendere, per esempio, gli interessi strategici italiani in Libia, dove l’Egitto esercita pressioni fortissime attraverso il suo alleato, il generale Khalifa Haftar. Chinare il capo, mostrarsi deboli e pronti a un compromesso disonorevole non proteggerà i nostri militari in Libano, né i soldati e gli uomini dell’intelligence che abbiamo in altri quadranti. La storia delle nostre relazioni nel Mediterraneo negli ultimi quarant’anni ci dovrebbe aver insegnato che non c’è bisogno di essere servili per ottenere un profilo importante nei negoziati e nella difesa dei nostri interessi strategici. Al contrario, la fermezza è quella che, nelle volte in cui l’abbiamo esercitata, ci ha dato una statura che ancora si ricorda nell’area. Un esempio tra tutti: la guida che il generale Carlo Angioni ebbe della nostra prima missione di peacekeeping all’inizio degli anni Ottanta. A Beirut, se la ricordano ancora bene. Paola Caridi è analista e scrittrice (@invisiblearabs). |
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