Lezioni francesi Il collegio uninominale in epoca post-ideologica Alessandro Miglioli 26/06/2017 |
Le elezioni politiche francesi si sono concluse consegnando al Paese uno scenario inimmaginabile fino a quaranta giorni or sono. La République en Marche!, Il partito del recentemente eletto presidente Emmanuel Macron, ha riportato una vittoria per cui la locuzione “a valanga” risulta quanto mai letterale.
All’indomani del primo turno l’11 giugno, le proiezioni davano a Macron circa il 70% dei seggi e, nonostante il secondo turno il 18 giugno gli abbia poi consegnato una maggioranza più contenuta (di poco superiore al 60%), il risultato del nuovo movimento centrista rimane impressionante.
Per capire quanto questo evento fosse inatteso, basti pensare che all’indomani delle elezioni presidenziali del 7 maggio gli analisti francesi si interrogavano su quale partito sarebbe stato cercato da Macron come alleato di governo, perché il mancato conseguimento di una maggioranza parlamentare veniva quasi dato per scontato.
Punti di forza e di debolezza
Gli stessi analisti oggi si interrogano sulle ragioni politiche del successo di Macron, sui suoi punti di forza e su quelli di debolezza dei suoi avversari. Nel compiere questa azione, però, complice forse il fatto di essere troppo inseriti nel contesto francese, o ad esso abituati, dimenticano di osservare la reale causa di questo exploit: il sistema elettorale francese stesso, basato sui collegi uninominali.
Un collegio uninominale è, sostanzialmente, una piccola area geografica, nella quale si svolge una competizione elettorale fra vari candidati per un singolo posto da parlamentare. Chi ottiene più voti ha il posto; tutti gli altri, indipendentemente dalle loro percentuali, non sono eletti.
Nonostante una strategia assolutamente vincente, infatti, Macron non ha ottenuto che il 32% dei voti espressi al primo turno, quello in cui tutti i partiti sono presenti. Ancora una volta, certamente un risultato positivo, ma ben lontano dal 61% dei seggi parlamentari conquistati dal suo partito, specialmente considerando che la partecipazione alle elezioni ha fatto registrare un record in negativo, con ben il 51% degli astenuti.
Francia e Regno Unito a confronto
I collegi uninominali però, non possono da soli spiegare questo risultato. Un perfetto metro di paragone sono le elezioni britanniche, avvenute giusto tre giorni prima di quelle francesi.
Al di là della Manica infatti, dove vige un sistema elettorale non dissimile, basato anch’esso sui collegi uninominali, il partito di Theresa May ha fallito l’obiettivo del 50% dei seggi parlamentari, pur riportando una percentuale di voti ben più alta (42,2%) del partito di Macron.
Qual è dunque la differenza fra i due casi in esame? In una parola, l’omogeneità del corpo elettorale francese.
Se nel Regno Unito abbiamo infatti aree rurali a vocazione conservatrice, grandi metropoli fortemente progressiste e ampie aree abitate da minoranze etniche dall’identità politica ben definita, in Francia, pur sussistendo differenze storiche fra un ovest più di sinistra ed un est più di destra, nessun partito può più contare sul controllo esclusivo di zone con maggioranze definite.
Il 42% della May era concentrato in relativamente poche constituencies, con maggioranze assolute, il 32% di Macron invece ha reso possibile, in uno stato con spinte identitarie decisamente più contenute, l’ottenimento di una semplice maggioranza relativa nella stragrande parte dei collegi, comunque sufficiente a vedere i suoi parlamentari eletti.
La situazione italiana
Visto il ritorno in auge, nell’ultimo periodo, dell’infinito discorso su una nuova legge elettorale, forse anche noi italiani possiamo apprendere qualcosa da questo confronto sincronico.
Nonostante i partiti italiani abbiano potuto storicamente godere di zone “a controllo esclusivo”, simili in qualche misura a quelle esistenti in Gran Bretagna, la tendenza da parte delle forze politiche negli ultimi anni è quella di cercare un’immagine il più ecumenica possibile.
Il centrodestra berlusconiano ha costruito la sua fortuna, dalla discesa in campo nel ‘94, sul corteggiamento dell’italianomedio; il centrosinistra negli ultimi anni ha abbracciato posizioni sempre più moderate, nel tentativo di conquistare consensi trasversali, a parziale discapito del suo controllo delle regioni rosse; la Lega ha ormai da anni abbandonato la sua vocazione originaria di partito etnico-regionale; ed il M5S basa gran parte della sua opera di convincimento e propaganda sul web, luogo per definizione staccato dalle particolarità geografiche.
Una transizione da ‘britannica’ a ‘francese’
La politica italiana sembra dunque trovarsi in una fase di transizione da una situazione simile a quella britannica verso una più “alla francese”. Se accettiamo l’assunto che, al netto delle preferenze personali per questo o quel partito, la possibile assegnazione del 61% dei seggi ad un partito che abbia conseguito il 32% dei voti è un evento indesiderabile in democrazia, forse dovremo allora interrogarci sulla bontà di questo sistema.
A questo fatto va aggiunta la considerazione che, in uno stato in cui il voto di scambio è sovente, e tristemente, all’ordine del giorno, la creazione di piccole aree facilmente trasformabili in ‘feudi’ dal politico di turno, potrebbe diventare un rischio per lo stesso funzionamento democratico delle elezioni, prima ancora che per il risultato delle stesse.
Il fallimento parlamentare degli ultimi giorni ha riguardato una legge elettorale con collegi uninominali alla tedesca, ulteriore meccanismo che tramite un combinato disposto di sistema maggioritario e proporzionale avrebbe notevolmente mitigato i possibili effetti di sovra-rappresentazione. Questa poteva essere forse una via più ragionevole, ma l’intesa per la sua realizzazione pare ormai definitivamente tramontata.
I governi monocolore non rappresentano intrinsecamente un rischio per la democrazia, ma la loro legittimità si dovrebbe basare su un ampio consenso elettorale. Il sistema dei collegi uninominali, in Francia, ha ampiamente dimostrato di non potere garantire questa legittimità.
Alessandro Miglioli è laureato all'Università di Bologna in sviluppo e cooperazione internazionale.
All’indomani del primo turno l’11 giugno, le proiezioni davano a Macron circa il 70% dei seggi e, nonostante il secondo turno il 18 giugno gli abbia poi consegnato una maggioranza più contenuta (di poco superiore al 60%), il risultato del nuovo movimento centrista rimane impressionante.
Per capire quanto questo evento fosse inatteso, basti pensare che all’indomani delle elezioni presidenziali del 7 maggio gli analisti francesi si interrogavano su quale partito sarebbe stato cercato da Macron come alleato di governo, perché il mancato conseguimento di una maggioranza parlamentare veniva quasi dato per scontato.
Punti di forza e di debolezza
Gli stessi analisti oggi si interrogano sulle ragioni politiche del successo di Macron, sui suoi punti di forza e su quelli di debolezza dei suoi avversari. Nel compiere questa azione, però, complice forse il fatto di essere troppo inseriti nel contesto francese, o ad esso abituati, dimenticano di osservare la reale causa di questo exploit: il sistema elettorale francese stesso, basato sui collegi uninominali.
Un collegio uninominale è, sostanzialmente, una piccola area geografica, nella quale si svolge una competizione elettorale fra vari candidati per un singolo posto da parlamentare. Chi ottiene più voti ha il posto; tutti gli altri, indipendentemente dalle loro percentuali, non sono eletti.
Nonostante una strategia assolutamente vincente, infatti, Macron non ha ottenuto che il 32% dei voti espressi al primo turno, quello in cui tutti i partiti sono presenti. Ancora una volta, certamente un risultato positivo, ma ben lontano dal 61% dei seggi parlamentari conquistati dal suo partito, specialmente considerando che la partecipazione alle elezioni ha fatto registrare un record in negativo, con ben il 51% degli astenuti.
Francia e Regno Unito a confronto
I collegi uninominali però, non possono da soli spiegare questo risultato. Un perfetto metro di paragone sono le elezioni britanniche, avvenute giusto tre giorni prima di quelle francesi.
Al di là della Manica infatti, dove vige un sistema elettorale non dissimile, basato anch’esso sui collegi uninominali, il partito di Theresa May ha fallito l’obiettivo del 50% dei seggi parlamentari, pur riportando una percentuale di voti ben più alta (42,2%) del partito di Macron.
Qual è dunque la differenza fra i due casi in esame? In una parola, l’omogeneità del corpo elettorale francese.
Se nel Regno Unito abbiamo infatti aree rurali a vocazione conservatrice, grandi metropoli fortemente progressiste e ampie aree abitate da minoranze etniche dall’identità politica ben definita, in Francia, pur sussistendo differenze storiche fra un ovest più di sinistra ed un est più di destra, nessun partito può più contare sul controllo esclusivo di zone con maggioranze definite.
Il 42% della May era concentrato in relativamente poche constituencies, con maggioranze assolute, il 32% di Macron invece ha reso possibile, in uno stato con spinte identitarie decisamente più contenute, l’ottenimento di una semplice maggioranza relativa nella stragrande parte dei collegi, comunque sufficiente a vedere i suoi parlamentari eletti.
La situazione italiana
Visto il ritorno in auge, nell’ultimo periodo, dell’infinito discorso su una nuova legge elettorale, forse anche noi italiani possiamo apprendere qualcosa da questo confronto sincronico.
Nonostante i partiti italiani abbiano potuto storicamente godere di zone “a controllo esclusivo”, simili in qualche misura a quelle esistenti in Gran Bretagna, la tendenza da parte delle forze politiche negli ultimi anni è quella di cercare un’immagine il più ecumenica possibile.
Il centrodestra berlusconiano ha costruito la sua fortuna, dalla discesa in campo nel ‘94, sul corteggiamento dell’italianomedio; il centrosinistra negli ultimi anni ha abbracciato posizioni sempre più moderate, nel tentativo di conquistare consensi trasversali, a parziale discapito del suo controllo delle regioni rosse; la Lega ha ormai da anni abbandonato la sua vocazione originaria di partito etnico-regionale; ed il M5S basa gran parte della sua opera di convincimento e propaganda sul web, luogo per definizione staccato dalle particolarità geografiche.
Una transizione da ‘britannica’ a ‘francese’
La politica italiana sembra dunque trovarsi in una fase di transizione da una situazione simile a quella britannica verso una più “alla francese”. Se accettiamo l’assunto che, al netto delle preferenze personali per questo o quel partito, la possibile assegnazione del 61% dei seggi ad un partito che abbia conseguito il 32% dei voti è un evento indesiderabile in democrazia, forse dovremo allora interrogarci sulla bontà di questo sistema.
A questo fatto va aggiunta la considerazione che, in uno stato in cui il voto di scambio è sovente, e tristemente, all’ordine del giorno, la creazione di piccole aree facilmente trasformabili in ‘feudi’ dal politico di turno, potrebbe diventare un rischio per lo stesso funzionamento democratico delle elezioni, prima ancora che per il risultato delle stesse.
Il fallimento parlamentare degli ultimi giorni ha riguardato una legge elettorale con collegi uninominali alla tedesca, ulteriore meccanismo che tramite un combinato disposto di sistema maggioritario e proporzionale avrebbe notevolmente mitigato i possibili effetti di sovra-rappresentazione. Questa poteva essere forse una via più ragionevole, ma l’intesa per la sua realizzazione pare ormai definitivamente tramontata.
I governi monocolore non rappresentano intrinsecamente un rischio per la democrazia, ma la loro legittimità si dovrebbe basare su un ampio consenso elettorale. Il sistema dei collegi uninominali, in Francia, ha ampiamente dimostrato di non potere garantire questa legittimità.
Alessandro Miglioli è laureato all'Università di Bologna in sviluppo e cooperazione internazionale.
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