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mercoledì 21 giugno 2017

McMaster prevale nella strategia Usa

Incremento truppe Usa
Afghanistan: la strategia opaca di Trump 
Ludovico De Angelis
19/06/2017
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Dopo più di 15 anni dall’invasione statunitense, l’Afghanistan è ancora un cumulo di macerie, mentre Donald Trump pensa a un incremento di circa 4000 nuove truppe Usa nel Paese.

Nella capitale Kabul, recentemente, uno degli attentati più brutali compiuti dall’inizio dell’operazione Enduring Freedom ha causato 85 morti ed oltre 400 feriti, palesando per l’ennesima volta la vulnerabilità disarmante del governo centrale nei confronti degli insorti. Nonostante il principale portavoce talebano abbia smentito il coinvolgimento del gruppo, si crede che dietro l’atto brutale possa trovarsi l’influente rete Haqqani, alleato storico dei talebani oggi guidati da Hibatullah Akhundzada.

Avvolto in una coltre di insicurezza endemica, l’Afghanistan è oggi in cima alla classifica dei luoghi più pericolosi del globo, emblema di una situazione securitaria volatile ed imprevedibile a cui anche il terzo presidente statunitense da quando è iniziata la missione è chiamato a dare una risposta.

Più truppe dopo la Moab
A fronte di tale macabra realtà, l’amministrazione Trump ha recentemente vociferato un aumento di alcune migliaia di unità presenti sul territorio, annuendo anche ad un aumento delle truppe di stanza nel Paese degli una volta vituperati alleati della Nato.Tale strategia, che ha già ricevuto alcune critiche in Afghanistan, è considerata figlia del consulente per la sicurezza nazionale del presidente, il generale McMaster, uomo che rappresenterebbe la crescente influenza del Pentagono nel processo decisionale della politica estera di Washington.

Al momento, però, ci troviamo in una fase di stallo: difatti, all’interno del gabinetto di guerra di Trump, sussisterebbero ancora delle divisioni tra militari ed apparato civile, con il controverso Steve Bannon - il capo stratega della Casa Bianca simbolo delle pretese di quest’ultima fazione - che avrebbe manifestato delle perplessità in merito ad un incremento di truppe americane, nel timore che tale iniziativa possa comportare un logorante ed impegnativo esercizio di state-building, storico spauracchio dei conservatori Usa.

Dall’inizio dell’era Trump, l’unico sussulto dell’interesse statunitense per l’Afghanistan è stato rappresentato dal lancio della madre di tutte le bombe, la Moab, il 13 aprile nel distretto est di Achin, con l’obiettivo di distruggere un tunnel utilizzato dal sedicente Stato islamico del Khorasan, il gruppo jihadista di ex talebani che hanno aderito al Califfato. L’ordigno, che ha avuto lo scopo di flettere i muscoli della potenza militare americana, ha inviato un deciso messaggio ai governi di tutto il mondo.

Tuttavia, la GBU-43 – l’ordigno non nucleare più potente presente nell’arsenale Usa - non ha offerto una soluzione fattibile, solida e duratura ai quasi quarant’anni di instabilità del Paese, riportandoci semmai dritti al fulcro della questione afghana contemporanea: ovvero, che la pace nel “cimitero degli imperi” non potrà essere raggiunta esclusivamente militarmente, ma dovrà principalmente passare per uno sforzo politico di riconciliazione su scala nazionale. Un’impresa attualmente considerata mastodontica.

Se l’obiettivo dell’aumento delle truppe è quello di portare i talebani al tavolo dei negoziati, infatti, sappiamo già che lo stesso Barack Obama fallì in una tale avventura durante gli anni della surge (2009-2012), periodo in cui le forze presenti sul territorio afghano aumentarono sino a raggiungere circa 100.000 combattenti.

Per tale ragione, lo sparuto incremento di unità voluto da Trump sembrerebbe essere giustificato più che altro dalla volontà e dalla necessità di rinvigorire, dopo le recenti sconfitte, le capacità militari del governo di Kabul, favorendo la riconquista di alcune porzioni di terra.

Washington pensa ai minerali afghani
Tuttavia, i dubbi su tale approccio permangono: infatti, anche se questa strategia portasse a delle effettive vittorie belliche, l’annoso problema del consolidamento del controllo sul territorio attraverso un miglioramento delle capacità di governance del Paese, a dir poco claudicanti, permarrebbe.

Ma ciò non sembra interessare al momento l’amministrazione repubblicana che, per ciò che invece concerne un’alternativa politica per raggiungere la pace, si èlimitata a menzionare la necessità di puntare sul settore dei minerali del Paese (che ha sì strabilianti depositi per un trilione di dollari, ma che risulta altrettanto straordinariamente corrotto).

Questa particolare attenzione potrebbe derivare da una vicinanza di Trump alla causa delle industrie minerarie statunitensi, che vedrebbero nell’Afghanistan potenziali margini di guadagno: frenando gli entusiasmi, alcuni commentatori hanno però già fatto notare come prima di affidare ai minerali il futuro di Kabul, bisognerebbe togliere dal controllo degli attori non statali l’80% per cento delle miniere presenti nel territorio.

Nel mezzo di questa evidente incertezza americana, ad aprile la Russia ha indetto una conferenza sul futuro dell’Afghanistan con gli attori regionali interessati, alla quale Stati Uniti, Onu e Unione europea non hanno partecipato. Date le circostanze, non è oggi da escludere che il destino della difficile pace afghana passi per Mosca, che ha iniziato a vedere nei talebani una pedina contro il jihadismo transnazionale e la Nato.

Le sfide all’orizzonte
La popolazione afghana si ritrova oggi intrappolata in una spirale soffocante di estrema insicurezza: dal 2007 ad oggi il Paese si è classificato nei primi tre posti al mondo per numero di attentati terroristici, e se nel 2015 il governo centrale influenzava o controllava il 72% del territorio, oggi tale percentuale si è ridotta al 52%.

Inoltre, da una scissione dei talebani pachistani ed afghani è nata nel 2015 Isis-Khorasan che, seppur contando attorno ai 1.600 elementi (le milizie talebane sono invece 40.000) ed avendo subito pesanti sconfitte negli ultimi mesi, ha dimostrato di saper compiere attacchi brutali sia in territorio afghano sia pakistano.

Questi dati si riflettono nei risultati di approfondite ricerche sulla percezione degli afghani in relazione al loro Paese, le quali nell’ultimo triennio hanno registrato un vertiginoso declino in negativo. Il 65% della popolazione crede che il Paese vada nella direzione sbagliata per tre ragioni, che rispecchiano anche le maggiori sfide dei prossimi anni: la precaria situazione securitaria, l’elevato tasso di disoccupazione ed una corruzione rampante (posizionandosi 169esimo su 175 nel mondo, nella celebre classifica di Transparency International).

Pace: sentiero politico, non solo militare
Le fondamenta della stabilità, ed anche la fiducia dei cittadini nei confronti del governo centrale e delle sue ramificazioni locali, verranno gettate quando si capirà che la soluzione militare è parte di un processo politico ben più ampio.

Bisogna proporre un’iniziativa che includa necessariamente le fazioni talebane meno radicali nel processo di pace, delegittimando quelle più estremiste attraverso il miglioramento delle capacità di governance dello Stato, aumentando la sicurezza, rafforzando il potere giudiziario e diminuendo drasticamente la corruzione - definita causticamente dalla missione Onu in Afghanistan come “l’altro campo di battaglia” del governo di Kabul -, che si riproduce anche a causa dei traffici illeciti d’oppio, la produzione del quale (vitale per il sostentamento quotidiano di molti) ha pure fatto registrare una crescita del 10% nell’ultimo anno.

Ludovico De Angelis studia Relazioni Internazionali ed ha effettuato un tirocinio presso lo IAI ed il Ministero degli Affari Esteri.
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