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mercoledì 29 febbraio 2012

Integrazione e globalizzazione nel mondo islamico? Un nuovo assetto geo-politico.


Giole Barcellona

I legami dell’islam[2] con l’Europa sono antichi. Se quelli conflittuali spaziano dalle crociate  ai tentativi di incursione musulmana conclusisi con l’assedio di Vienna nel 1622, si è avuta anche una presenza stabile dell’islam sia nella Spagna andalusa fino al 1492 che in Sicilia e nei Balcani. Il conflitto recente nella Bosnia-Erzegovina ha resuscitato nella memoria collettiva l’esistenza di un islam dimenticato nel cuore d’Europa. La caduta del muro di Berlino ha contribuito a far riemergere altri mondi musulmani rimossi, quelli dell’Albania e delle repubbliche islamiche dell’ex URSS. E ancora troppo prestò per valutare che tipo di islam emergerà da questa nuova situazione geopolitica, anche se vari indicatori vanno nel senso della radicalizzazione delle forme identitarie . Come affermava alcuni anni fa l’orientalista Jacques Berque, la situazione che si è venuta a creare a partire dagli anni Ottanta è la nascita di un Islam europeo, vale a dire di un islam che vuole identificarsi geograficamente con l’ Europa, frutto di flussi migratori e di immigrati della seconda o terza generazione , che hanno ottenuto per diritto o per naturalizzazione la cittadinanza di un paese europeo. Questa situazione si è venuta a creare mentre lo spazio economico e politico europeo si andava consolidando. Il progetto di una maggiore omogeneità su piano legislativo e politico ha fatto emergere la diversità di  trattamento giuridico delle comunità islamiche nei diversi paesi dell’Unione Europea: finora ciascuno dei paesi membri cerca di formulare una risposta a questi nuovi interrogativi secondo la propria tradizione giuridica, le proprie dottrine politiche, la propria percezione del fenomeno religioso.



Il problema dell’inserimento dell’islam nel quadro europeo sfocia in numerose problematiche, come ad esempio la futura cittadinanza europea e le sue condizioni di accesso, il rapporto fra cultura, religione e diritto, e infine il tipo di relazioni che andrà instaurandosi fra 1’islam europeo e l’islam del dar al-islam. Queste nuove comunità musulmane, nate in Europa, entreranno in conflitto con la cultura islamica d’origine o saranno fattore di equilibrio fra Nord e Sud del Mediterraneo.
Non va inoltre sottovalutato il problema dell’organizzazione strutturale di queste comunità. Il recente tentativo di creare a Parigi un organismo sotto forma di concistorio di musulmani rappresentativi dell’islam in Francia va in questo senso.
Dal punto di vista politico, le due filosofie che si intravvedono in Europa riguardo l’inserimento dell’islam nella comunità riflettono le differenti filosofie politico-sociali dei diversi stati: si passa dl comunitarismo di tipo anglosassone a un’integrazione alla francese .
Esistono anche divergenze entro le stesse comunità islamiche riguardo alla strutturazione di una propria rappresentanza; tali divergenze si riscontrano anche in Italia, sebbene fra tutte la situazione italiana sia la più recente. La nascita di organismi e strutture comunitarie islamiche si inserisce nell’attuale dibattito fra la crescita numerica della comunità e la sua richiesta di un’intesa con lo stato italiano Le diverse comunità mussulmane in Italia, come quelle di molti altri paesi, sono caratterizzate da un’accentuata frammentazione. Si ritrova qui la problematica di partenza: l’assenza di una «chiesa» nell’islam, e dunque la difficoltà per lo stato e le istituzioni di trovare un interlocutore al di sopra delle parti.
Le situazioni sono troppo recenti per formulare delle conclusioni, e l’islam in Europa risente delle dinamiche e dei conflitti che attraversano gran parte del mondo musulmano. In questi ultimi vent’anni si è assistito a un crescendo della problematica de1l’islam sotto molteplici aspetti. Che sia nell’opinione pubblica o nel vasto campo delle scienze sociali, l’islam è scrutato, analizzato, classificato. Le polemiche hanno assunto talvolta toni violenti, come ad esempio nel dibattito suscitato dal saggista Edward Said col suo famoso saggio sull’orientalismo, del 1978. Le polemiche non si sono ancora sopite; di recente lo stesso autore ha pubblicato un saggio su Culture and Imperialism, innescando una nuova polemica, questa volta con Ernest Gellner. Questi[3] episodi danno la misura della difficoltà di trovare un linguaggio, dei quadri di riferimento concettuali in grado di chiarire ciò che sta avvenendo. D’altra parte, l’enfatizzazione dei discorsi apologetici dell’islam contemporaneo fa sottovalutare i lavori di studiosi come Mohammed Arkoun e Muhammad ‘Abd al-Gabri, che non esitano a parlare di crisi della ragione islamica (Arkoun) o di critica della ragione araba (‘Abd al-Gabri). In ogni caso, come suggerisce Mohammed Arkoun, il dibattito sull’islam va inserito in uno molto più ampio e dunque molto più complesso. Di qui, l’obbligatorietà di un discorso interdisciplinare nell’affrontare le dinamiche in corso nel mondo musulmano. Si pensa spesso che gli anni Novanta abbiano definitivamente sancito la fine delle ideologie politiche; la soggettività derivata dall’utopia insieme alla dimensione sociale del collettivo da un lato e, dall’altro, il ritorno del religioso. Vanno in questo senso le numerosissime pubblicazioni uscite sul mercato editoriale in questi ultimi cinque anni: che si tratti di Francis Fukuyama con The End of History, o di Gilles Kepel con La revanche de Dieu, questi saggi sono l’eco di un mutamento nella società contemporanea. Mutamento che di fatto è legato ai cambiamenti geopolitici, economici e culturali che si sono prodotti nella sfera del religioso attraverso ciò che la sociologia chiama reinvestimento nel sacro. Ora, non è tanto sulla religiosità e sulle pratiche sociali derivate che oggi bisogna interrogarsi, ma sulla valenza stessa del sacro in quanto codice simbolico, codice che ci sembra irradiare nuove spinte collettive in altrettante forme di aggregazione sociale, etnica, religiosa o politica. Le società islamiche nel nostro caso sono un insieme interessante per l’osservazione di questi fenomeni, di questo cosiddetto ritorno del religioso. Ciò che si vuole ottenere nelle dinamiche odierne attraverso il linguaggio religioso non è tanto il ritorno ad una società tradizionale, peraltro già definitivamente scomparsa ad opera della modernità, quanto la comparsa di un nuovo tipo di individualità, il cui agire in conformità ad una tradizione spesso mitizzata non fa che tradurre la sua interazione fra una modernità per molti aspetti devastante e la sua nuova soggettività. E un paradosso apparente[4], ma il radicalismo che attraversa oggi gran parte delle società musulmane è il risultato di un processo di modernizzazione che da più di trent’anni ha modificato completamente la geografia sociale, l’antropologia, la morfologia urbana e rurale di queste società. La realtà odierna delle grandi periferie urbane del Maghreb o del Machreq fino al Sud-est asiatico, come la standardizzazione dei consumi e l’omologazione dei comportamenti sociali, soppiantano lentamente ma inesorabilmente le antiche medine del mondo musulmano e la gerarchia delle società tradizionali. Siamo in presenza di una specie di protosoggettività che agisce in una dialettica , che il filosofo Marcel Gauchet,  uno dei più acuti osservatori dei fenomeni contemporanei,  definisce nel suo saggio Il disincanto del mondo: Ci sono eccellenti ragioni perché gli uomini del dopo-religioso abbiano la tentazione di convertirsi, cosa che per essere interamente efficace richiede una conversione. Andata e ritorno, e compromesso zoppicante fra adesione e distanza, tra culto del problema e scelta della soluzione, che definisce la religiosità specifica dell’epoca  e forse anche il modo durevole di sopravvivenza del religioso in seno a un mondo senza religione. L’affermazione, insieme alla crescente radicalizzazione, di specificità culturali, parallelamente ad una mondializzazione che si propaga nei quattro angoli della terra, implica una crisi del soggetto; le nuove volontà di potenza cercano sempre discorsi di autofondazione in grado di legittimare nuove scelte, nuove interpretazioni politiche e religiose. Che sia il protonazionalismo o l’attuale tendenza verso ciò che alcuni studiosi chiamano l’islamo-nazionalismo , l’oscillazione è sempre la stessa, fra appartenenza identitaria (olismo) e autonomia individuale. La storia dell’islam di questo secolo è segnata da questi tentativi, che sono anche risposte a queste due sfide. Il tenore del dibattito si misura anche nelle interpretazioni e negli studi svolti dagli stessi autori musulmani. Tra un autore come ‘Ali ‘Abd al-Riziq, che pubblica nel 1925 un saggio subito condannato che gli vale l’espulsione dall’università di al-Azhar, Al-islam wa-usul al-hukm («L’islam e i fondamenti del potere») e l’esegesi coranica di Sayyid Qutb dai titolo Fi Zilàl al-Qur’àn («All’ombra del Corano») la distanza epistemologica è grande. In una recente intervista pubblicata nella rivista «M.A.R.S.», lo storico Abdallah Laroui rispondeva:
L’islam così ricco, così variegato per storia e cultura, che si è adattato a tante situazioni impreviste, non può vedere il suo destino dipendere da un solo e unico avvenimento così manifestamente puntuale nel tempo e circoscritto nello spazio. L’interazione fra modernità e conquista di nuovi spazi politici richiede innovazioni nel campo dell’analisi e comporta l’arricchimento delle nuove identità alla ricerca di spazi culturali tuttora da costruire.

L’islam contemporaneo fra contestazione e rinnovamento

Alla fine di questo secolo due elementi emergenti caratterizzano l’islam contemporaneo. Il primo, probabilmente  più ricco di conseguenze, è la nascita della immigrazione e della deterritorializzazione dell’islam tradizionale. Il secondo è la collocazione dell’islam della contestazione  nei confronti degli stessi stati islamici, arabi e non. Riguardo al primo elemento, si potrebbe ipotizzare che l’is1am, staccato dal suo contesto d’origine, sarebbe in grado di accelerare un processo che Olivier Roy ha chiamato di «aggiornamento teologico». Molti studiosi e musulmani riformisti lo pensano. anche se si tratta di un’ipotesi fra tante altre. Un aggiornamento teologico presuppone uno spazio in cui una riflessione possa essere attuata, e una società in grado di accogliere questo stesso aggiornamento. Per il momento in Europa tale spazio è inesistente, e non si possono mettere sullo stesso piano i corsi di studi in islamologia nelle università europee con i centri di formazione degli imam, vale a dire dei teologi musulmani, che nei paesi islamici sono formati dallo stato. La formazione in Europa degli imam è una questione aperta, e diversi tentativi in alcuni paesi europei hanno dimostrato il sussistere della dipendenza delle comunità musulmane dal paese d’origine. Si tratta di una situazione paradossale: se da una parte le comunità musulmane in Europa sono il risultato di una deterritorializzazione sociologica e storica, spesso i musulmani della seconda generazione sono cittadini europei, dall’altra la percezione de11’islam da parte delle istituzioni rimane incentrata sul ruolo guida della nazione d’origine. Si pone dunque il problema di una istituzionalizzazione dell’autonomia delle comunità musulmane in Europa. Porre tale questione significa accettare il fatto che l’is1am in Europa ha un tratto caratterizzante, fondamentale per poter immaginare i suoi sviluppi futuri: la sua caratteristica minoritaria. Il fatto[5] di rappresentare una minoranza, nonostante la crescita demografica dei musulmani in Europa sia esponenziale, ha un significato sociologico, perché implica che l’islam si debba collocare, come tutte le altre religioni, in funzione di una cultura che è comunque secolarizzata. L’is1am che si sta affermando in Europa è dunque il risultato di una frattura tra is1am e territorio. La comunità territoriale di partenza, che definiva il tradizionale dar al- islam , è assente, lo Stato non è più presente, non struttura più la comunità sul piano politico e religioso; e l’islam che ne deriva è orfano del suo territorio. Ciò spiega la difficoltà con cui in Europa gli stessi musulmani strutturano le proprie comunità: se lo stato d’origine è assente, manca il nesso fra l’assetto geografico e la sua rappresentazione politica. Certo, lo stato nel mondo islamico è recente, ma in ogni caso la territorializzazione del fenomeno religioso è stata fondamentale per lo svi1uppo politico de1l’islam. Infatti sotto la forma del califfato o del sultanato, l’islam si è identificato e strutturato attraverso il territorio, indipendentemente dalla sua estensione. La parola dar ha il significato di «casa» ma anche di «territorio», vale a dire del luogo in cui i musulmani, in assenza di una chiesa, si strutturano. Questo fenomeno spiega la complessità e le difficoltà giuridiche dei rapporto fra islam e stato in Europa Ciò avviene anche perché non può essere attribuito all’Europa il compito di strutturare i musulmani tra loro  di dare loro un’identità giuridica e Istituzionale, perché oggi l’Europa tratta il fenomeno religioso attraverso il prisma di secoli di trasformazione culturale, sociale e politica. E proprio quella fase del disincanto, descritta mirabilmente da Marcel Gauchet, che fa sì che l’universo religioso in Europa non appaia più come la componente fondamentale dell’identità europea. Il tratto minoritario appare dunque come una situazione sociologica nuova che, per le prossime generazioni, implicherà una nuova funzione dell’islam, poiché, per necessità di sopravvivenza, esso dovrà adattarsi alla natura dello Stato in Europa. Dunque dovrà privilegiare le vie che permettono la sua stessa esistenza, e la parità nei confronti delle altre religioni. La parità di trattamento giuridico con le altre religioni implicherà alla fine le stesse modalità di comportamento e di collocazione nei confronti dello Stato.
L’islam in Europa interagisce con una società atomizzata, e dunque marcatamente individualista; una società in cui anche il fatto religioso è un fatto individuale, non comunitario, sebbene di tanto in tanto echi di solidarismo riemergano alla superficie, anche se si tratta di un solidarismo che si esprime attraverso i singoli individui. Si può ipotizzare dunque che nei prossimi vent’anni si prospetti per i musulmani una religiosità più incentrata sull’individuo che sulla società, come dimostrano recenti ricerche sociologiche condotte tra i giovani musulmani nelle banlieues di Parigi e di Amsterdam. Si tratta ancora una volta di un paradosso, non immune da problematiche: l’individualismo nascente è un individualismo antropologico, sociale, non supportato da una riflessione teologica che, come abbiamo visto, è assente o bloccata. Si tratterà dunque di coniugare i cambiamenti sociali e strutturali che interessano i musulmani in Europa con nuovi assetti e spazi di riflessione in grado di accompagnare questi cambiamenti con il supporto di riflessioni teologiche, per impedire che si perpetui la serie di derive ideologiche del comunitarismo politico nell’islam. L’esempio [6]del conflitto nella ex Yugoslavia evidenzia proprio questo: non basta essere sociologicamente secolarizzati per evitare la contaminazione ideologica, perché quando le culture sono deboli per l’assenza di un’ermeneutica che accompagni questi cambiamenti, le identità possono divenire veri e propri demoni. Se la frammentazione delle comunità musulmane caratterizza oggi l’islam d’Europa, i cambiamenti sociali e culturali indotti da questa migrazione volontaria ci popolazioni musulmane si tradurranno in un islam incentrato più sull’individuo che sulla comunità. Questo spostamento sociologico implica il venir meno della costrizione giuridica nell’islam, proprio perché, essendo assente la comunità territoriale, il diritto non ha più la funzione di articolare territorio e comunità dei credenti: il dar al- islam è assente dall’orizzonte europeo, proprio perché quello che si sta sviluppando è un islam di tipo minoritario. L’articolazione dei musulmani fra di loro si svolgerà con altre modalità, in particolare attraverso un discorso di tipo escatologico-spirituale. Il diritto dunque non avrà più la funzione di produrre significato nel1’islam europeo, mentre la tendenza a una maggiore interiorizzazione di esso, e anche talvolta allo spiritualismo, compenserà il perduto legame sociale d’origine. Per rendersi conto di questo fenomeno, bisogna analizzare e costruire delle tipologie sui discorsi dei predicatori musulmani che oggi lavorano in Europa, soprattutto nell’ambito carcerario. Alcuni studi in proposito hanno sottolineato l’uso di elementi del discorso islamico focalizzati sulla riconversione e sul riscatto dal peccato, sintomi di una tendenza all’ individualizzazione.
Nell’islam europeo viene meno il nodo comunitario, mentre si profila una religione vissuta in modo individuale, certo solidalmente con gli altri musulmani, ma «decomunitarizzata» a causa dell’assenza di un’identità territoriale. Si tratta di un’ipotesi in prospettiva, tracciata individuando alcune tendenze attuali del1’islam in Europa e analizzando sociologicamente il fenomeno religioso, poiché le religioni mutano nel tempo, adattandosi alle condizioni dell’ambiente in cui esse si spostano.
Questa prospettiva però, sul piano del rapporto fra Stato e comunità religiose, presenta il rischio di una sconnessione fra le due parti, perché oggi la logica delle intese da parte dello Stato e delle istituzioni in Europa parte di una  visione dell’islam non inserito nella dinamica del cambiamento ma, ancora, in quanto comunità di tipo territoriale o politico. Quest’idea, che persiste un po’ ovunque in Europa, falsa il dibattito e la stessa percezione dell’islam. Nella filosofia politica dell’intesa, lo Stato continua a percepire l’interlocutore musulmano attraverso l’articolazione, quella dell’is1am delle origini, fra comunità dei credenti  e identità territoriale. Lo Stato non ha ancora assimilato il cambiamento in atto, il mutamento sociologico profondo che attraverserà l’islam europeo nei prossimi trent’anni. L’oscillazione costante, che ha caratterizzato l’islam del XX secolo, fra un islamismo che ideologizza la religione e un fondamentalismo o neofondamentalismo che l’ha di fatto ridotta a una serie di divieti, ha bloccato qualunque tipo di riflessione teologica o di interpretazione ermeneutica nell’islam. Due sono le conseguenze principali di questo fenomeno. Da una parte l’ipertrofia del diritto nell’islam ha implicato un suo allargamento alla sfera politica che si è tradotto dall’altra in una visione essenzialmente  politica delle funzioni del1’islam. I vari movimenti islamici di questo secolo, Fratellanza Musulmana, salafismo,  non sono che modalità politiche di definizione del significato della polis in quanto entità politica nell’islam. Le tendenze più laicizzanti, più liberai, come i movimenti riformisti negli anni Trenta in Egitto, ad esempio quello di ‘Abd al-Rziq,  sembrano delle aporie nella complessità del rapporto fra islam e società. Ciò che caratterizza l’islam contemporaneo è dunque il blocco della riflessione, un blocco epistemologico che ha condizionato il discorso dell’islam ufficiale. Ad esempio, nella stessa Turchia[7] laica, la Dyanet (Direzione degli affari religiosi) non ha paradossalmente nulla da invidiare, quanto a conservatorismo, all’università di al-Azhar al Cairo. L’origine di tutto ciò risiede probabilmente nella debolezza della società civile nel mondo musulmano, ma anche nel fatto che la ricerca di legittimità politica nei paesi musulmani si è accompagnata a un gioco perverso fra Stato e contestazione islamica: per non esserne superato, lo Stato si è spesso comportato come garante dell’islamita. Questo fenomeno ha comportato una conseguenza che lo studioso e giurista Francesco Castro ha chiamato la «shariatizzazione» del diritto: man mano che la legittimità politica si indeboliva a causa di fattori esterni e interni, lo Stato e le istituzioni rafforzavano la loro legittimità islamica introducendo norme shariatiche nelle altre fonti giuridiche dello Stato. Ad esempio in Egitto, nel 1980, dopo gli accordi di Camp David, il governo Sadat, per frenare la contestazione islamica, fece un emendamento costituzionale in cui si affermava che la shari’a era norma fondamentale dello Stato egiziano. Ciò non impedì l’assassinio di Sadat nel 1981 ad opera di un commando terrorista islamico. I mutamenti nell’islam contemporaneo sono osservabili sia nell’islam d’Europa,  la diaspora dell’islam , sia negli stessi Stati in cui l’islam per tradizione storico-politica ha assunto una legittimazione politica e istituzionale. Storicamente il fattore islamico, sia nella fase precedente la decolonizzazione che in quella dell’autonomia politica, ha costituito un elemento di aggregazione nello Stato formatosi in seguito all’eredità coloniale, ma anche un elemento di forte legittimazione simbolica della coesione e dell’idea nazionale nei paesi islamici. In molti casi lo stato nei paesi islamici è una creazione recente. Nel Medio Oriente (Machreq), gli accordi Sykes-Picot del 1916 diedero luogo alla costruzione degli Stati-nazione nei paesi arabi, sulle rovine dell’impero ottomano. Il Maghreb costituisce un caso diverso, a causa della sua costante ricerca di autonomia: il Marocco ne è un esempio illuminante. Generalmente, l’idea di nazione appare in una prospettiva islamica come uno dei paradigmi della modernità, perché essa ha destrutturato il vecchio mondo attraverso il processo di decolonizzazione o quello di occidentalizzazione (non tutti i paesi islamici sono stati colonizzati). Ma l’occidentalizzazione ha fatto sì che a un certo momento, per questa parte dell’umanità, la nazione divenisse il vettore portante della modernità politica tout co’urt: modernità politica non intesa in quanto autonomia del politico, ma in quanto riduzione delle differenze storiche fra popoli e nazioni.
A parte l’esempio turco, il nazionalismo nei paesi islamici non ha mai rimesso in causa la funzione dell’islam nell’arena politica. La questione dell’autonomia del politico è stata sempre occultata dal pensiero nazionalista. L’assenza di una separazione tra sfera pubblica e sfera privata nei paesi musulmani ha implicato il fatto che essi abbiano dovuto cercare altrove un’esperienza fondatrice della nazione. Ciò spiega anche perché, in assenza di un momento simbolico forte in cui l’idea di nazione potesse emergere, il nazionalismo nel mondo musulmano abbia utilizzato 1’islam come fattore strutturante l’idea stessa di nazione, e come supporto alla sua legittimità politica: basta considerare i simboli della nazione in questi paesi, il colore verde, la stella a cinque punte, la mezzaluna, e soprattutto la nascita di una tecnica politico-amministrativa del controllo dell’islam attraverso i ministeri degli affari religiosi. Nei paesi islamici del Sud-est asiatico ritroviamo le stesse dinamiche: un islam che è servito a rafforzare la legittimità dello Stato-nazione e una deriva di questo islam istituzionalizzato in una serie di movimenti contestatori, le cui strategie politiche variano da paese a paese. Secondo studi recenti, la società iraniana appare sempre più distante dai miti della rivoluzione iraniana, ma allo stesso tempo appare divisa fra una tendenza conservatrice e una più incline all’apertura verso l’Occidente; non viene però rimesso in causa il ruolo politico degli àyatollàh. La contestazione delle aree più liberali in Iran è incentrata essenzialmente sulla richiesta di una maggiore flessibilità riguardo alla funzione dell’ortodossia (l’obbligo della prassi religiosa) nella società. Le tendenze richiamate ci obbligano a costruire una classificazione in grado di determinare quale sia oggi il rapporto fra l’islam militante e lo Stato che si investe anche di una legittimità islamica. Un’analisi di questo tipo deve rendere conto della variabilità dei movimenti contestatori nell’islam, ma anche dell’intensità della loro opposizione allo Stato. Un dato di fatto inoppugnabile che accomuna le diverse situazioni è che ormai il gioco politico si svolge all’interno dei singoli Stati nazionali. L’interazione fra Stato e movimenti islamici dipende dalle strutture dello Stato, ma anche dal potere e dal raggio d’azione di questi movimenti, sia in ambito nazionale che in ambito regionale. Si possono dunque oggi distinguere, nell’interazione fra Stato e movimenti islamici , una serie di strategie diversificate tra loro. Questa [8]interazione fra Stato e contestazione islamica si traduce in un rapporto di forza tra le parti. A seconda del livello di intensità dei conflitti, si assiste a un gioco di polarizzazione ideologico e politico che può portare alla deriva terroristica e alla nascita di una situazione di tipo eversivo. Il caso più tipico di una forte intensità del conflitto è attualmente Algeri dove Stato e movimenti terroristici islamici si scontrano frontalmente. Questo scontro è caratterizzato da un monopolio pressoché totale della contestazione politica da parte dei militanti islamici, anche se alcuni segmenti di società, che operano attraverso movimenti associazionisti (donne, giornalisti) entrano in gioco in questo confronto fra Stato ed eversione. Altri paesi come l’Arabia Saudita si trovano in situazioni simili, anche se differenziate a seconda delle diverse condizioni socio-culturali. L’Arabia Saudita è un caso interessante perché fonda la sua legittimità su un forte simbolismo religioso essendo la dinastia saudita guardiana dei luoghi santi dell’islam , Mecca e Medina, una dottrina dello Stato basata su un puritanesimo religioso, il wahhabismo, e un sistema giuridico-istituzionale basato essenzialmente sul Corano e la tradizione profetica (Sunna). L’Arabia Saudita infatti non ha una costituzione, poiché essa è rappresentata dal Corano. Nonostante questa forte simbolica religiosa, la società saudita è attraversata da una contestazione islamica di tipo neoconservatore da parte delle stesse élite religiose che essa ha prodotto. Nel 1992 fu fatto circolare un manifesto, redatto da cinquanta teologi musulmani sauditi, che chiedevano un maggiore distacco dall’Occidente. I vari tentativi di catturare degli ostaggi all’interno dei luoghi santi del1’is1am dimostrano come il sistema possa essere superato da questa contestazione islamica. L’Egitto, a partire dalla metà degli anni Novanta, ha visto crescere la contestazione islamica, che cerca lo scontro frontale con lo Stato, mediante l’assassinio delle personalità politiche più in vista e gli attentati contro i simboli della presenza occidentale, come alberghi e turisti. Da[9] questo conflitto ad alta intensità fra militanti dell’is1am e Stato, derivano una prassi politica e una strategia. La strategia è basata sul tentativo di sradicare questi fenomeni, dunque sul ruolo della sicurezza e dell’ordine pubblico; ma questa politica dell’ordine pubblico, che in sé non è sufficiente a garantire l’equilibrio politico, reinveste nelle politiche di reislamizzazione, diverse a seconda del contesto socio-culturale in cui operano. Ad esempio in Algeria la politica di arabizzazione delle istituzioni pubbliche è il tipico esempio di simbolica che comporta un processo di reislamizzazione dall’alto. La strategia dello sradicamento del radicalismo islamico va di pari passo con il reinvestimento nella religione, e lo Stato tende a diventare un agente della reislamizzazione politica della società. La situazione di debole intensità del conflitto fra Stato e contestazione islamica si ha quando, per motivi strutturali e tradizione culturale, lo Stato non è l’unico elemento strutturante della società perché al suo interno permangono altre logiche, di tipo tribale o semplicemente confessionale E il caso della, in cui la contestazione islamica è di fatto diluita dalla frammentazione comunitaria; la caratteristica multiconfessionale dello Stato in Libano funge da freno a uno scontro frontale. Inoltre, la molteplicità delle appartenenze confessionali all’interno dell’islam, Sunniti, Sciiti, Drusi, Ismailiti, implica strategie diverse da parte di  questi movimenti contestatori. Infatti nello Yemen, Iraq e in Somalia , la spiccata frantumazione tribale e le difficoltà dello Stato a coagulare la realtà tribale indeboliscono l’impatto della contestazione islamica, anche se essa è fortemente radicata sul terreno. Una terza categoria può essere quella dei paesi in cui si è verificato l’ingresso della contestazione islamica nell’arena politica, e in particolare nel gioco politico all’interno dello Stato. È questo il caso della Giordania, dove la Fratellanza Musulmana, entrata in Parlamento negli anni Novanta, ha avuto una funzione di filtro tra ideologia contestatrice e movimenti eversivi. L’ingresso dei fondamentalisti «moderati» in Parlamento ha di fatto indebolito le tendenze più radicali presenti nella società giordana. Sembra che il Marocco segua la stessa logica politica: nelle ultime elezioni sono entrati nel Parlamento marocchino, all’interno della coalizione socialista, nove deputati islamisti. Ma questi due paesi, molto importanti nella valutazione delle tendenze politiche dell’islam contemporaneo, hanno delle caratteristiche precise: in ambedue il potere ha una legittimità estremamente forte, perché sia il re del Marocco sia il re di Giordania discendono dal profeta Muhammad. In loro dunque il potere politico è di fatto garante dell’equilibrio fra sacralità e dinamica dello Stato. Si può dire che di per sé la forte legittimazione sacrale funziona da punto d’equilibrio fra potere e autorità. In questo caso l’autorità modula il potere e non ha bisogno di reinvestire nel sacro. Ultimo caso, più complesso, è quello della Siria e della Turchia. Qui il gioco fra Stato e contestazione islamica ha implicato una strategia di espulsione totale della seconda; ma la società è attraversata da fenomeni di islamizzazione, che possono manifestarsi improvvisamente, come è avvenuto in Turchia negli anni Novanta. Lo Stato in questo caso interviene come garante di un limite non valicabile fra istituzioni e contestazione. Nel subcontinente indiano, in Pakistan e in genere nell’islam periferico, si possono osservare due fenomeni: la islamizzazione per il tramite di movimenti puritani  ad esempio il Tabligh in Pakistan o i diversi movimenti wahhabiti che attraversano l’Afghanistan e le repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale  e il processo di etnicizzazione della nazione, che implica il venir meno di una logica statale diluita in una realtà costituita da segmenti tribali e clanici. In questo caso prevale la logica dell’appartenenza tribale nei processi di reislamizzazione. Lo si nota in Asia centrale, ma anche in Afghanistan, dove l’etnia pasthum si fa agente di una reislamizzazione forzata. Queste logiche tribali, quando si fanno portatrici di uno stesso discorso sull’islam, rimettono in moto due grandi questioni che hanno sempre attraversato la formazione della classe politica nell’islam, vale a dire il rapporto fra la umma (comunità dei credenti, transetnica e transnazionale) e la ‘asabiyya (fratellanza di sangue). Figura emergente nel1’islam contemporaneo. il militante è l’indicatore di un mutamento totale delle società musulmane. Egli non è un personaggio che attraversa la storia per proiettarsi in una società tradizionale che non esiste più ma è il prodotto diretto di un condizionamento ideologico e della « sovramodernità» che connota oggi molti aspetti delle società contemporanee. Rifiutando l’Occidente, egli si fa vettore di ciò che rifiuta, non solo perché è l’Occidente che ha fornito al suo discorso ideologico il retroterra semantico, attraverso una definizione meramente politica dell’islam, ma anche perché il cambiamento che ha destrutturato le società musulmane oggi non conosce confini geografici; sotto l’effetto della globalizzazione, di una mondializzazione tecnologica, il discorso identitario nell’islam, nelle sue espressioni più radicali, è il risultato paradossale di questo processo, ancora in atto, di una deterritorializzazione della comunità, la umma. Oggi la umma non appare più come aggregazione di differenze etniche o nazionali nel discorso della contestazione islamica, ma sotto certi aspetti essa è universale, perché legata a una visione ideologica comune. Ciò che accomuna tutti i musulmani radicali è il fatto di definirsi come appartenenti a questa umma virtuale, a questa comunità di destino. La Bosnia, il Sudan, l’Afghanistan, la Palestina non sono dei segmenti storici e geografici ma sono elementi di una stessa messa in scena, l’islam oppresso ovunque sul pianeta. Questa visione paranoica della storia, peculiare dei gruppi eversivi e terroristici islamici, è praticamente simmetrica al terrorismo occidentale degli anni Settanta. Anche in quel caso il terrorista era un «viaggiatore», perché non definibile geograficamente e culturalmente. Questa[10] situazione è il risultato della sovra modernità: la comunità, essendo virtuale, rappresenta un non-luogo, uno spazio non più definito territorialmente. Secondo Marc Augé, i luoghi antropologici creano del sociale-organico, mentre i non-luoghi creano della «contrattualità solitaria». Va spiegato in questo senso il fatto che spesso negli attentati terroristici gli obiettivi prescelti siano proprio dei non-luoghi: stazioni, aeroporti, supermercati, strade, e raramente simboli religiosi: È forse anche a causa di questo, in un modo più o meno confuso, che coloro che rivendicano delle nuove socializzazioni e delle nuove localizzazioni non possono vedervi che la negazione del loro ideale. Il non-luogo è il contrario dell’utopia: esso esiste e non vi è in esso alcuna società organica. Ma proprio perché il radicalismo islamico è il risultato di questa trasformazione di una comunità definita culturalmente, etnicamente e geograficamente in una comunità astratta, la critica esacerbata dei radicalisti è indirizzata direttamente a tutto ciò che è organicamente definibile. Questo aspetto del radicalismo islamico definisce il passaggio dall’islam in quanto civiltà e prassi religiosa all’islam politico. Ci si potrebbe chiedere se questo ingresso del1’islam nell’arena politica, con i mutamenti che esso comporta, non implichi ciò che Marcel Gauchet ha definito l’uscita dell’islam dalla dimensione sacrale, in quello che potrebbe essere chiamato il tempo delle «religioni senza Dio». Il profondo mutamento nelle società musulmane può essere verificato nel binomio Stato-contestazione islamica, che fa intervenire una nuova dinamica sul piano sociale, con la nascita di elementi che si inscrivono nella prospettiva di future società civili: si tratta del processo di democratizzazione. Processo che non può essere analizzato sotto l’angolatura culturalista, ma deve essere decodificato attraverso le lente trasformazioni economiche e sociali. Tutto ciò avviene attraverso destrutturazioni e ricomposizioni dì società che interagiscono, volenti o no, con la globalizzazione.
 per informazioni e approfondimenti: risorgimento23@libero.it



[1] Il primo articolo è apparso sul n. 3 del 2009. Cfr. G. Barcellona, Il Fondamentalismo e L’Islam contemporaneo.; Il secondo articolo è apparso sul n. 1 del 2011, G. Barcellona, Islam, politica e diritto islamico.
[2] Ivi,  p. 285
[3] Ivi, p. 287
[4] Ivi,  pp. 306-308
[5] Ivi,  pp. 316-320.
[6] Ivi,  p. 322.
[7] Ivi, p. 326
[8] Ivi, p. 330
[9] Ivi, p. 340
[10] Ivi, pp. 342-346

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