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mercoledì 29 febbraio 2012

Le operazioni a sostegno della pace

Maria Chiara Zuppardo

Nella transizione dal mondo bipolare dominato dall’immobile duello delle superpotenze, al mondo multicentrico, i sistemi militari occidentali, hanno sperimentato sia  il mutamento dell’ambiente in cui operano, che della missione che adempiono.
Se dovessimo sintetizzare in un unico concetto la natura di tali mutamenti, il superamento della logica binaria amico/nemico potrebbe essere di tutti il più appropriato. Come ben noto, il crollo del Muro di Berlino, lo scioglimento del Patto di Varsavia, l’autodissoluzione dell’Unione Sovietica hanno rappresentato la (almeno momentanea) eclissi del nemico. Ciò non significa, evidentemente, la scomparsa tout court di forze ostili, di minacce e soprattutto di rischi; significa semplicemente il venir meno del tradizionale “interlocutore” contro il quale, ma anche insieme al quale, era stato edificato un sistema di sicurezza che, per risorse materiali e simboliche investite, non ha eguali nella storia.
Con la fine della guerra fredda e della sfida tra le due superpotenze, neppure la violenza bellica è, di per sé, diminuita. Semplicemente ha cambiato aspetto: da concentrata si è fatta diffusa, da totale si è fatta limitata, da virtuale si è fatta reale.
Con il passaggio da un ambiente critico, ma relativamente stabile, come era quello dell’epoca bipolare, ad un ambiente forse meno critico, ma certamente più instabile come quello attuale, la mission del sistema militare guadagna in ampiezza, ma perde in intensità. Guadagna in ampiezza nel senso che gli vengono attribuite nuove missioni, compito in passato di altre istituzioni (Polizia, Protezione Civile, organizzazioni internazionali umanitarie). Perde in intensità, nel senso che per far fronte a queste nuove missioni deve abbandonare, o perlomeno attenuare, alcuni aspetti della propria specificità militare.
Nati per  fronteggiare la minaccia esterna, reale o percepita che sia, i sistemi militari hanno dovuto registrare fondamentali cambiamenti nella natura di questa. Nel mondo bipolare la minaccia era ufficialmente definita (e dunque chiara e indiscutibile per tutti gli attori appartenenti ad un determinato schieramento), centralizzata, messa in atto da un sistema militare antagonista, ma speculare. Oggi, invece, il mondo multicentrico presenta minacce non definite una volta per tutte, decentrate, poste in essere da soggetti indefiniti per numero e natura. La complessità e la multiformità delle sfide,  si rispecchia nella complessità delle risposte.
Superato il concetto di una Difesa statica, è venuta prendendo forma e consistenza, in seno alle Nazioni Unite ed all’Alleanza Atlantica, una politica comune di sicurezza dinamica, proiettata al di fuori dei confini nazionali, nelle aree ove insorgano, all’interno di uno Stato o fra Stati, situazioni di crisi politica, sociale od economica suscettibili di spiralizzazione conflittuale e di estensione ai territori limitrofi, oppure in grado di incidere sugli interessi generali di sviluppo economico, di progresso sociale.
Si accentua la  asimmetricità dei contendenti. L’ambiente operativo tende sempre più ad estendersi, ad includere nuove dimensioni di confronto e ad assumere caratteri di spiccata non linearità. L’ambiente operativo va inoltre progressivamente urbanizzandosi.
Più complesse e dinamiche divengono le interconnessioni e le sovrapposizioni tra i livelli tattico, operativo e strategico alimentate dai condizionamenti derivanti dall’opinione pubblica e dalla politica, anche con riferimento alla salvaguardia dell’ambiente naturale ed alla possibile esplosione della dimensione umanitaria della conflittualità.
Si afferma la tendenza alla gestione preventiva e remota delle crisi, con l’impiego di formazioni multinazionali ed interforze di entità relativamente limitata al di fuori dei confini nazionali.
Il fenomeno degli interventi umanitari è divenuto particolarmente rilevante infatti a partire dagli anni Ottanta e, soprattutto, durante il successivo decennio. Nell’era bipolare obiettivo di tali interventi era essenzialmente quello di tentare di attenuare, semplificare e ove possibile risolvere le situazioni di crisi  acuta e di conflitto, interponendosi tra le parti con il loro espresso consenso. Oggi, l’intervento è innanzitutto dettato dalla volontà di ridurre le sofferenze dei civili e delle popolazioni coinvolte nel conflitto; l’azione mira piuttosto a garantire il rispetto dei diritti dell’uomo e delle minoranze, nonché il ristabilimento, al termine del conflitto, di condizioni atte, sia dal punto di vista economico, che politico,  e ad assicurare la coesistenza pacifica in paesi di solito sconvolti da situazioni di guerra civile.
Quando gli interventi economici e politici non sono stati più sufficienti ad arrestare o respingere eventuali tentativi di sopraffazione o di invasione territoriale, le Organizzazioni Internazionali hanno dovuto prendere in considerazione l’impiego di forze armate in attività comunemente note come Peace Support Operations (PSO).
 Gli anni Novanta, hanno portato prepotentemente alla ribalta un nuovo scenario di impiego per le forze armate italiane e non, chiamate a partecipare ad interventi sotto l’egida dell’ONU sia per operazioni di carattere umanitario, che per azioni armate vere e proprie per il mantenimento forzoso della pace. Parallelamente è emersa la tendenza a far operare le forze di ciascun paese lontano dalla madrepatria, per evitare il coinvolgimento diretto nelle questioni all’origine della crisi.
Qualche anno fa, il segretario generale dell’ONU Boutros Ghali, per non contravvenire al dettato della Carta, ogni volta che si poneva la necessità di ricorrere alla forza per far rispettare le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, coniò le eufemistiche locuzioni: Operazioni Militari Diverse dalla Guerra (MOOTW) e operazioni a sostegno della pace (PSO).
Con il termine <<operazioni di supporto alla pace>> possono definirsi, in senso lato, quelle operazioni comportanti l’impiego di personale militare da parte di un’organizzazione internazionale, al fine di mantenere o ristabilire la pace in aree di conflitto e comportanti una presenza fisica sul campo.  Si tratta di operazioni sviluppatesi notevolmente dopo la fine della guerra fredda, in cui le forze militari svolgono compiti diversi da quelli di combattimento ed in cui l’impiego della forza è limitato certe volte alla sola autodifesa passiva, in cui spesso, non esiste un avversario designato da sconfiggere sul campo per obbligarlo ad accettare le condizioni di pace che gli si vogliono imporre.
Oggi, in campo internazionale, per indicare tutta la gamma di operazioni scaturite dall’evoluzione del peace-keeping, si tende ad impiegare il termine Peace Support Operations. Tale concetto è parte della più ampia categoria delle Military Operations Other Than War (MOOTW). Le MOOTW comprendono tutte le attività svolte da formazioni militari terrestri, navali ed aeree che non siano operazioni belliche. La tendenza è dunque quella di omologare il mantenimento della pace a una forma di conflitto a bassa intensità, anziché definirlo come una missione distinta oppure unica. Si tratta, quindi, essenzialmente di operazioni di supporto alla pace, di operazioni di assistenza umanitaria, di operazioni di cooperazione alle attività civili; in altre parole le operazioni MOOTW possono definirsi come quelle operazioni militari a bassa intensità di violenza o “diverse dalla guerra”.
 Le missioni di pace sono assai diverse fra loro, più di quanto non lo siano gli atti di guerra; occorre quindi tagliarle politicamente su misura dello scenario, delle difficoltà e dei rischi di ogni specifica operazione, nonché degli obiettivi politici di breve, medio e lungo termine.
Le operazioni di pace comprendono un vasto “spettro” di missioni, le cui linee di confine sono molto sfumate. Il livello di intensità nell’uso della forza va dal minimo dell’aiuto umanitario, ai valori intermedi del peace-keeping, fino al massimo del peace-enforcement, funzionalmente poco distinguibile da una vera e propria campagna di guerra.
L’Agenda per la Pace del 1992 emanata del Segretario Generale delle Nazioni Unite Boutros Ghali è un documento che organizza sistematicamente le varie fasi del mantenimento della pace,comprendendo una  categorizzazione degli interventi che possono essere così classificati:
Missioni di aiuto umanitario (Humanitarian Aids) : Sono considerate tali, le operazioni di minore intensità, condotte allo scopo di alleviare le sofferenze umane, specialmente laddove le Autorità   responsabili sono impossibilitate a provvedere , fornendo un adeguato supporto alle popolazioni.
 Tali tipi di operazioni prevedono essenzialmente tre tipi di attività:
§         l’aiuto umanitario;
§         l’assistenza ai rifugiati e profughi;
§         L’aiuto in caso di calamità;

Prevenzione dei conflitti (Conflict Prevention): Sono definite tali le operazioni svolte da personale civile e/o militare allo scopo di scongiurare l’avvio di una crisi e di evitare che dispute tra
fazioni/ nazioni si estendano o degenerino in conflitti armati.
Il compito dello strumento militare in questo caso è quello di fornire sostegno alle iniziative ed alle attività politiche e diplomatiche mediante l’impiego di forze che assolvono funzioni di allarme e di deterrenza attraverso una serie di missioni quali:
  • lo spiegamento preventivo;
  • la sorveglianza;
  • l’allarme preventivo;

Peace- Keeping operations: La natura “empirica” delle peace-keeping operations (letteralmente mantenimento della pace) caratterizzate dalla flessibilità dei compiti ad esse attribuiti in funzione delle esigenze del caso concreto, rende difficile una definizione formale delle stesse.
Il peace-keeping classico, o come si usa definirlo, di prima generazione, è regolato da cinque principi fondamentali:
- la manifestazione di  un consenso esplicito all’intervento, ad opera di tutte le parti coinvolte nel     conflitto;
- la rinuncia all’uso della forza, se non per autodifesa, da parte delle forze impegnate nell’intervento;
- la rigorosa neutralità delle unità e degli osservatori internazionali schierati sul terreno;
- la costituzione di contingenti d’interposizione con l’impiego delle forze messe volontariamente a disposizione da paesi piccoli o neutrali;
-  il controllo diretto sulla preparazione e la condotta di tutte le operazioni da parte del Segretario Generale delle Nazioni Unite.
In particolare le attività di  peace-keeping si concretizzano in :
§         missioni di interposizione fra le parti:
§         assistenza durante la fase di transizione;
§         controllo degli armamenti;
Nella nozione tradizionale di peace-keeping, gli elementi essenziali cui si fa riferimento, sono quelli del consenso tra le parti, dell’imparzialità e dell’indipendenza, nonché della dotazione di armamenti leggeri utilizzabili solo per scopi di legittima difesa.
Le forze devono privilegiare la protezione passiva al fine di contenere il rischio. In sostanza, il rischio militare deve essere fronteggiato con un livello minimo di risposta, ma con immediatezza ed efficacia.
L’obiettivo delle forze di pace, infatti, non è, a differenza di quanto avviene per le forze impegnate in guerra, la vittoria. L’obiettivo delle forze di P.K non è “risolvere” il conflitto, quanto  “stabilire” le condizioni grazie alle quali i conflitti possano essere risolti con mezzi non violenti. Questa radicale diversità si spiega con le differenze che contraddistinguono la situazione bellica e la situazione di mantenimento della pace, relativamente agli attori e all’ambiente dell’uno e dell’altra. Nella situazione bellica, la controparte è, come ovvio, il nemico. Nella situazione di peace-keeping la controparte è costituita da stati o fazioni in lotta fra loro. Popolato da attori l’uno contro l’altro armati, l’ambiente, pur altamente turbolento, non è univocamente ostile come nella classica situazione di guerra. Nel peace-keeping, infatti, si registra un ampio ventaglio di situazioni che può svilupparsi dall’ostilità armata,  alla cooperazione, passando per la neutralità più o meno benevola.

Peace-making:  Questa categoria di operazioni vengono definite letteralmente come operazioni di pacificazione, e costituiscono uno step successivo alle operazioni di peace-keeping, in quanto intervengono in una situazione di conflitto ormai irreversibile, ponendosi obiettivi a lungo termine per giungere alle radici dello scontro, nel tentativo di trovarvi soluzioni politiche, e stabilire una tregua o giungere ad un equilibrio di pace. Il peace-making è composto da un insieme di attività nelle quali sono presenti iniziative diplomatiche e di mediazione per convincere le parti coinvolte, senza ricorrere a misure coercitive, a raggiungere una forma di accordo.




Peace-building:
Il consolidamento della pace comprende tutte le azioni che supportano le misure politiche, economiche, sociali e militari, nonché le strutture aventi il fine di rafforzare e consolidare gli accordi politici che mirano a neutralizzare il conflitto.
Rientrano nel peace-building infatti, tutte le attività che mirano ad incoraggiare la ricomposizione politica di un conflitto e consentono la ripresa delle condizioni di vita ordinaria comprendendo programmi di aiuto e ricostruzione economica, sociale, sanitaria, soprattutto nella fase successiva alla cessazione delle operazioni militari.

Peace-enforcement: Vengono definite tali, le operazioni condotte da Forze militari, anche senza il consenso di tutte le parti in conflitto,  allo scopo di imporre la pace in un’area interessata da un conflitto dopo il fallimento di altre operazioni di pace, oppure “ab initio”. Il peace-enforcement è l’intervento che implica l’uso della forza militare vera e propria, nella misura e nel modo voluti, con un’intensità “medio-alta”, per assolvere al compito. Nel caso di peace-enforcement operations, la situazione è molto simile infatti a quella della guerra classica, caratterizzata da elevata conflittualità e  da un alto livello di intensità operativa.

Operazioni di prima generazione:
 Dopo il crollo del Muro di Berlino siamo abituati a distinguere gli interventi delle Nazioni Unite nel settore del mantenimento della pace, in interventi della “prima”, “seconda” e “terza generazione”. Nel primo trentacinquennio di attività delle Nazioni Unite, dal 1945 al 1980, si aggirano intorno alla quindicina le missioni comportanti la presenza sul campo di un contingente dell’ONU, per lo più in Asia e in particolare in Medio Oriente. Questo è il periodo definito come “operazioni di prima generazione”, in cui le operazioni erano a bassa intensità, in un ambiente relativamente stabile e statico e, che, si attuavano mediante azioni programmate centralmente dai comandi nazionali e dai vertici politici.

Operazioni di seconda generazione: Le operazioni di seconda generazione sono definibili come operazioni delle Nazioni Unite, autorizzate da organi politici o dal Segretario Generale, che hanno il compito di sorvegliare o di portare a compimento la soluzione politica di un conflitto interstatuale o interno, con il consenso delle parti. E’ chiaramente questo, un passo in avanti molto importante, in quanto lo scopo delle operazioni è qui volto ad ottenere una pace non provvisoria, attraverso strumenti che sono soprattutto di natura politica, ma che possono diventare, in certe circostanze, anche di natura esclusivamente militare (peace enforcement), questa volta, ovviamente, senza il consenso delle parti interessate.
Le operazioni di seconda generazione, nel quadro delle misure volte al controllo e alla gestione delle crisi, sono caratterizzate da una presenza militare rinforzata, opportunamente addestrata ed equipaggiata ed in grado di rispondere efficacemente alla transizione da un tipo di missione ad un’altra, visto che determinate operazioni, nate con certe caratteristiche ed obiettivi, possono evolversi in qualcosa di diverso a causa del mancato consenso di una delle parti, della pluralità delle fazioni in conflitto e della presenza di forze irregolari.

Operazioni di terza generazione: Ormai, sempre più spesso, si assiste all’affiancamento o alla sostituzione delle operazioni di peace-keeping  classico, quelle denominate di prima generazione, da parte di operazioni cosiddette di seconda o terza generazione. L’inizio di questa nuova fase si fa coincidere  essenzialmente con il 1989, quando nelle missioni di pace la componente civile e le attività da essa svolte acquistano un peso praticamente equivalente, se non preponderante, rispetto alle attività di carattere militare. Ormai la gran parte delle guerre non sono  più combattute tra stati, né da personale militare distinto e facilmente distinguibile dalla popolazione civile, né, tantomeno, per il perseguimento dei tradizionali fini della politica.
In questa prospettiva, l’intervento umanitario armato è una manifestazione particolare dell’affermarsi su scala globale del fenomeno del conflitto a “limitata intensità” (LIC, Limited Intensity Conflict) ovvero, un’operazione militare diversa dalla guerra tradizionalmente intesa.
Il peace-keeping della terza generazione  abbraccia quegli interventi militari che, designati con il termine di OOTW (Operations Other Than War, cioè operazioni diverse dalla guerra), prevedono l’eventuale uso della forza militare, al di là del limite tradizionale della legittima difesa, per realizzare l’obiettivo stabilito.
Queste operazioni sono concepite come un “continuum” delle operazioni precedenti, qualora queste non siano riuscite a perseguire gli obiettivi preposti, a causa della loro inadeguatezza originaria o per il sorgere di circostanze non esattamente prevedibili all’atto della formulazione del mandato. 
Esempi di operazioni di terza generazione possono essere considerati la seconda missione in Somalia, quella in Bosnia-Erzegovina e in Croazia, la guerra del Golfo del 1991 e le ultime due operazioni   “Antica Babilonia” in Iraq ed “Enduring Freedom” in Afghanistan, dirette a contrastare e combattere il terrorismo internazionale. 
In conclusione la complessità e spesso la sovrapposizione delle esigenze da soddisfare e dei compiti da eseguire, l’ottica non sempre coincidente delle differenti organizzazioni che svolgono le attività a sostegno della pace, la necessità di riferirsi ad un quadro di riferimento il più ampio possibile, di non provocare malintesi e di non ingenerare confusioni suggerirebbero che, al di fuori delle semplificazioni terminologiche, nella realtà attuale ben difficilmente un’operazione può già nascere con l’etichetta delle caratteristiche che dovrà avere. Conseguentemente, sarà difficile definire un’operazione di pace secondo un unico profilo.  Per il mondo occidentale, la guerra intesa come atto di forza che ha lo scopo di costringere l’avversario a sottomettersi alla propria volontà, viene ridimensionata ed inserita in un contesto più ampio, che comprende altre misure alternative, quali l’embargo commerciale, per esempio, o risoluzioni internazionali volte alla ricerca di una soluzione possibilmente pacifica. Da una concezione della forza come last resort ,strettamente collegata con la possibilità dell’impiego massiccio e risolutivo di una forza qualitativamente e quantitativamente in grado di conseguire la vittoria totale, occorre passare ad una concezione della forza in being, intesa, cioè, quale strumento organico della diplomazia.
All’interno del novo ordine mondiale la pace è vista non solo come assenza di conflitti internazionali, ma anche come rispetto dei diritti umani, rispetto delle minoranze, assenza di guerre fratricide. Talvolta, quindi, né la deterrenza militare, né le sanzioni economiche o politiche possono avere gran peso. Aumentano potenzialmente il numero di guerre per le quali l’unico obiettivo è quello di una loro restrizione, al fine di evitare processi di spiralizzazione.
In tale contesto si colloca la missione di pace, che rappresenta un “ponte ideologico” tra due modi differenti di considerare la guerra e la società.

                                                          Bibliografia

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Carlo Jean, Guerra, Strategia e Sicurezza, Bari, Laterza, 2001;
Antonio Pelliccia, Operazioni Militari Diverse dalla Guerra, <<Rivista Aeronautica>>, n° 1/2002;
Gen. Jean, Prof. Ronzitti, Il mantenimento della pace, Centro Alti Studi per la Difesa, 2° Corso Superiore di S.M Interforze, Anno Accademico, 1995-1996;
Giorgio Blais, Le operazioni di pace, << Rivista Aeronautica>>, n° 4/1999, p.17;
Boutros Ghali, “An Agenda for Peace” 17 giugno 1992, http://www. UN. Org/Docs/SG/agpeace.html;
SMD-G-015 “Manuale Interforze per le Operazioni di Pace”,  Roma, Stato Maggiore Difesa, gennaio, 1994;
C.F Renato Scarfi, Le operazioni di pace  nel nuovo ordine mondiale, <<Informazioni della Difesa>> n° 2/1997;
Giovanni Cellamare, Le operazioni di peace-keeping multifunzionali, Giappichelli Editore, Torino, 1999;
Fabrizio Battistelli, Il peace-keeping, nuova frontiera del militare, tratto dal volume  Soldati, sociologia dei militari italiani nell’era del peace-keeping, Franco Angeli, Milano, 1995;
Luigi Caligaris,  Le operazioni di pace: il ruolo della UEO e della NATO, tratto dal volume, Dal Futurismo al Minimalismo, ( a cura di) Luciano Bozzo, Napoli, ESI, 1999, p. 196;
Le possibili forme di intervento internazionale: peace-keeping, peace-building, peace-enforcing, peace-making, Tavola Rotonda, Centro Alti Studi per la Difesa, Roma, Palazzo Salviati, 19 gennaio 1994;
Carlo Jean, Guerra, strategia e sicurezza, Laterza, Bari, 2001;
Umberto Gori, I  mutati equilibri internazionali  e le operazioni di peace-keeping/enforcement, tratto dal volume “Dal Futurismo al Minimalismo”, ( a cura di) Luciano Bozzo, Napoli, ESI, 1999.

 per informazioni: risorgimento23@libero.it

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