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mercoledì 29 febbraio 2012

La situazione delle truppe tedesche in Italia



Giovanni Cecini
La guerra parallela dell’Italia fascista, divenuta in breve guerra subalterna della Germania nazista, mostra con particolare drammaticità il perenne e malcelato senso d’insofferenza e sospetto, che regnava tra i due alleati dell’Asse. Per questi motivi, al pari del clima di sfiducia regnante tra Vienna e Berlino a partire dal 1916 per via di una possibile richiesta austriaca di pace, questa volta nel bel mezzo del Secondo conflitto mondiale Roma veniva tenuta sotto osservazione dall’Alto comando germanico, dai funzionari e dagli agenti del servizi segreti nazisti in relazione a un possibile tradimento italiano.
Rispetto agli anni del massimo consenso, a seguito dell’entrata in guerra e dell’immediata serie di cocenti sconfitte, a partire dall’autunno del 1940 Mussolini si sentì franare la terra sotto ai piedi nel gioco dell’autorevolezza interna ed esterna. In tale logica va intesa quindi la preoccupazione che Hitler e i suoi generali iniziarono a nutrire nei confronti della sorte dell’imprudente Duce e del suo regime. Il Führer aveva una fiducia quasi cieca per il vecchio maestro, ma possibili disgrazie politiche, come una sollevazione popolare o il ripristino delle prerogative costituzionali da parte del re e imperatore, appoggiato dai sempre più insofferenti capi militari, rappresentavano una rischiosa incognita sulla prosecuzione dello sforzo bellico dell’Italia. Alle basi di questi forti timori vi erano non tanto quindi ragioni tattico-operative, vista la sostanziale inaffidabilità del contributo militare italiano, quanto motivazioni strategiche, considerato che uno sganciamento di Roma avrebbe pericolosamente aperto il fianco mediterraneo a una probabile e rapida avanzata continentale degli Anglo-americani.
Lo stesso Mussolini, consapevole che gli equilibri politici interni erano sempre sul punto di lacerarsi, in un frammisto di autocompatimento e desiderio di rivalsa continuò a chiedere con insistenza a Hitler truppe e materiali da poter impiegare sui fronti interessati dalle Regie Forze Armate. Durante l’incontro avvenuto ai primi di aprile del 1943 nel castello di Klessheim, presso Salisburgo, il Duce consigliò di giungere ad un armistizio con i sovietici per concentrare tutte le forze contro le democrazie occidentali. Il Führer non volle sentir ragioni, convinto che l’avamposto tunisino sarebbe stato un baluardo insormontabile, da dove l’Asse avrebbe riguadagnato tutti i territori perduti in Africa, tanto da risollevare le sorti della guerra.
Per tali motivazioni a partire da quel momento la presenza germanica nella Penisola crebbe a dismisura, paventando non tanto uno stanziamento difensivo di supporto alle operazioni oltremare, ma quasi una velata invasione preparatoria di una prossima occupazione vera e propria.
Infatti sin dalla primavera del 1943 l’Alto comando tedesco pianificò con precisione varie azioni, tutte rivolte a trovare il massimo vantaggio dal probabile mutamento di scenario diplomatico-militare. L’intervento più importante sarebbe stato la combinazione tra l’operazione “Alarico”, destinata a far affluire «in punta di piedi» una ventina di divisioni tedesche, e quella denominata “Asse”, rivolta a mettere fuori combattimento la timida Italia, catturarne gli uomini e i mezzi, occuparne i presidi e formare un nuovo governo fascista, epurato dei retaggi monarchici. Per il comando di tutta l’azione fu scelto il feldmaresciallo Erwin Rommel, che aveva dato ampia prova di ardimento e capacità innovativa e che per la sua storia personale, seppur comandante effettivo degli italiani in Tripolitania e in Cirenaica, nutriva nell’animo sfiducia e sospetto per le Regie Forze Armate.
Ecco perché all’indomani della caduta del fascismo, per nulla rassicurati dalle ambigue dichiarazioni del nuovo capo del Governo, il maresciallo Pietro Badoglio, i Tedeschi si trovarono preparati e pronti ad intervenire, qualsiasi sviluppo potesse profilarsi all’orizzonte.
Quando ancora la linea tra l’Asse e gli Alleati era rappresentata dal canale di Sicilia, venne predisposto l’invio di nove divisioni tedesche per quest’opera di contenimento; intervento aggiuntivo avvenne a partire dal 26 luglio 1943, quando attraversando le Alpi un’altra decina di divisioni venne trasferita dalla Francia meridionale, dalla Carinzia e dal Tirolo. Notevole importanza rivestirono le unità dislocate nella zona di Roma (circa 30 mila uomini), coordinate da una fitta rete informativa e politica, e da quelle operanti in Sardegna e in Corsica, predisposte a una decisa difesa costiera.
Berlino si trovò però nella situazione che alcuni generali di stanza in Italia, come il feldmaresciallo Albert Kesselring e il generale Enno von Rintelen, nonché l’ammiraglio Wilhelm Canaris, comandante dello spionaggio militare germanico, avevano una profonda simpatia e fiducia negli italiani, fattore che avrebbe impedito un’azione preventiva adeguata e efficace. Lo stesso Canaris, tra i promotori del successivo fallito attentato al dittatore austriaco del 20 luglio 1944, a latere dell’incontro dei primi di agosto a Venezia, espresse all’omologo generale Cesare Amé la sua approvazione per il cambio istituzionale, ma anche molta preoccupazione per gli inevitabili interventi che il Führer avrebbe prima o poi realizzato, per evitare che la situazione italiana gli sfuggisse di mano.
Per tutti questi motivi, anteponendo le ragioni politiche a quelle militari, Hitler nello scenario futuro della Penisola preferì assecondare il pessimismo dello stimato Rommel, piuttosto che l’eccentrico ottimismo di Kesselring, ritenuto per questo manovrabile dagli italiani. L’impostazione del Führer fu quella di far concentrare sull’Appennino settentrionale il Gruppo d’Armate “B” assegnate alla “Volpe del deserto”, che ebbe il suo comando prima in Baviera e poi sul lago di Garda, relegando Kesselring dalla sua sede operativa di Frascati a un’azione frenante nel Mezzogiorno, poco più che temporanea in vista della resa dei conti al nord. Azione primaria del piano sarebbe stata poi quella assegnata al fidato generale dei paracadutisti Kurt Student: l’occupazione preventiva di Roma con la messa a tacere del sovrano, dei vertici militari e del Vaticano.
Di fronte a un tradimento, la reazione germanica sarebbe stata quindi: il presidio armato di tutti i territori precedentemente difesi dagli Italiani e il disarmo o la cattura di questi ultimi, qualora non avessero espresso la loro chiara e fattiva intenzione di collaborare con la politica del Reich. Pur tuttavia una volta ottenuti questi successi, la linea da presidiare doveva essere arretrata tanto da mantenere il possesso della sola pianura Padana e dell’arco alpino, augurando di ottenere successo partendo dalla corta linea dei rifornimenti.
Sperando nel fanatismo di molti fascisti e pronta ad utilizzare l’inganno e l’intimidazione, Berlino creò ogni presupposto per recuperare ogni energia e risorsa alla causa dell’Asse. In effetti questo fu quel che avvenne, secondo un canovaccio già recitato, dove gli Italiani svolsero il ruolo di ipocriti infedeli e i Tedeschi quelli di insofferenti traditi e desiderosi di un’atroce vendetta.
In tutto ciò emerse una perfida approssimazione e un spirito malizioso delle istituzioni politiche e militari italiane. La defenestrazione di Mussolini avvenne secondo una procedura “regolare”, secondo i dettami elastici delle consuetudini costituzionali del Regno, e senza grossi contraccolpi nazionali. Non si può dire lo stesso della gestione diplomatica e militare del periodo successivo, che portò i Tedeschi ad avallare le proprie convinzioni che la caduta del fascismo avrebbe rappresentato la fine dell’inscindibile Patto d’acciaio. La commedia degli inganni, che intercorse tra governo Badoglio, comando Ambrosio e vertici germanici, evidenziò non solo la malafede esistente tra tutti i soggetti interessati, ma la cauta meticolosità di strategia dei tedeschi contrapposta alla politica disorganica delle istituzioni italiane, incapaci di pianificare in modo univoco i possibili ed eventuali sviluppi di una situazione così delicata e pericolosa.
La difesa della Sicilia, nel luglio del 1943, fu il banco di prova delle successive azioni tedesche, se finanche il territorio nazionale venne difeso dalle Forze Armate italiane con molto ardimento, ma prive di elementi e materiali sufficienti. In controtendenza invece le formazioni della Wehrmacht, sempre più cospicue e capillari nella Penisola, dimostrarono un’abilità e una fermezza nell’opposizione agli Alleati, tanto da riuscire, dopo la ritirata, almeno a far reimbarcare la quasi totalità dei reparti in una sorta di Dunkerque a parti inverse nello stretto di Messina.
In quella circostanza l’iniziale strategia di Kesselring, artefice di tutta quella che sarà la campagna difensiva d’Italia, partì proprio dalla convinzione che, nell’impossibilità di resistere a un’invasione su larga scala, la reazione contro gli Alleati doveva essere immediata, rivolta alla cacciata dei nemici direttamente sulle spiagge. L’operazione fallì, ma permise altresì ai Tedeschi di imparare una fondamentale lezione: cogliere la geografia dell’Italia e l’imminente confusione istituzionale italiana per avvantaggiarsi su una difesa elastica per tappe successive ad oltranza (simile per certi versi all’esperienza sovietica) del territorio della Penisola, anche avvantaggiandosi delle evidenti reticenze degli Anglo-americani ad azioni troppo azzardate e profonde. Infatti, trasferiti lo spregiudicato generale Patton e il fortunato generale Montgomery nella preparazione dell’invasione della Francia, gli Alleati in Italia erano privi di genialità creative, interessati solo ad operazioni militari accademiche e prevedibili.
Lo scontro dottrinario tra Rommel e Kesselring, già proposto per il contesto mediterraneo/nordafricano, si ripresentò anche sullo scacchiere italiano, tanto che quando arrivò il momento per Student di procedere all’operazione di liberazione di Mussolini sul Gran Sasso, all’indomani della dichiarazione di armistizio dell’8 settembre, Kesselring non venne neanche informato.
Secondo i convincimenti di Rommel, ancora scosso dalle disfatte nel deserto, l’Italia sarebbe stata difficile da difendere nella sua interezza, proponendo un’operazione di contenimento e di assestamento su ampia scala solo nell’Italia settentrionale. Kesselring espresse tutta la sua contrarietà a un’idea così pessimistica della campagna d’Italia, convinto invece di giocare d’astuzia. Proponeva quindi, come mossa migliore, di impegnare il nemico in una faticosa e difficile guerra di logoramento attraverso tutta la profondità del Paese. Infatti egli era contrario a un ripiegamento massiccio per creare una linea difensiva così arretrata, fronte troppo avanzato per il nemico e quindi funzionale a incursioni aeree massicce in territorio tedesco. A differenza delle ampie spianate desertiche del Nord Africa, lo Stivale era caratterizzato da un’aspra catena montuosa trasversale ma non rettilinea, difficile da valicare per gli Anglo-americani, la cui forza dominante dipendeva dalle truppe corazzate e motorizzate. Per di più tenere Roma il più possibile avrebbe garantito un pegno fondamentale sia in campo diplomatico che in quello operativo.
L’incognita di trovarsi in territorio straniero e per giunta in inferiorità numerica rispetto agli italiani “badogliani” non intimorì il comando di Frascati, che seppe rispondere con una pianificazione, una propaganda incisiva e una manovra ben collaudata allo sbandamento generale delle Regie Forza Armate capaci di eccelsi erosimi individuali, ma carenti perché in balia di vertici lontani o impreparati a colmare la lacuna istituzionale esistente.
La differenza di vedute tra i due feldmarescialli tedeschi, portò addirittura lo stesso Kesselring, senza tuttavia rinunciare al comando effettivo del settore a lui assegnato, a rassegnare a metà agosto del 1943 le dimissioni dal suo incarico, respinte in novembre da Hitler, che quindi si convinse della bontà del suo piano, concedendogli mano libera sull’intera Italia. Rommel, che fino ad allora aveva assistito – per ordine ricevuto – per la prima volta nella sua vita lontano dalle linee da semplice spettatore alla campagna d’Italia, venne destinato quindi al completamento del Vallo Atlantico sulla costa settentrionale francese in attesa dell’invasione dell’Europa dalla Manica.
Proprio questo antagonismo non facilitò le cose, se Kesselring, che aveva frenato con successo gli sbarchi a Salerno e l’avanzata in territorio campano, nel dopoguerra espresse tutto il suo disappunto sulla scelta di tenere troppe truppe di riserva nel centro-nord, invece di impegnarle subito sul fronte ancora elastico. Kesselring, secondo quel che esprimerà nelle sue memorie, aveva vinto la sfida al vertice, ma aveva perso mesi importanti, non potendo giovarsi del comando di tutti i reparti (circa 150.000 uomini), che dipendevano di massima da Rommel. Tuttavia, forte delle sue convinzioni partorite sul campo, si convinse a garantire al Führer una difesa adeguata per molti mesi della zona a sud di Roma, con relativo presidio della capitale dai possibili attacchi alleati.
L’azzardo di Kesselring venne premiato anche oltre i suoi meriti, proprio perché gli Alleati avevano sempre giudicato l’Italia, una volta indotta alla resa, un campo di battaglia periferico e finalizzato unicamente a togliere truppe nemiche da quello che sarebbe stato il fronte principale in Francia. Non volendo accordare fiducia alle osservazioni di Winston Churchill, che intravedeva nell’Adriatico il grimaldello per impossessarsi dei Balcani ai danni di Stalin, il generale Eisenhower, una volta presa la Sicilia, destinò nella Penisola un contingente limitato e senza troppe pretese, per giunta comandato da generali “da tavolino”, privi di un’avanzata esperienza sul campo e per questo poco avvezzi a manovre ardite.
L’armistizio dell’8 settembre, la reticenza degli Alleati a concedere troppo credito a Badoglio nello spingersi in sbarchi a nord di Roma e soprattutto un’assente predisposizione da parte dei vertici italiani di difesa della Capitale, facilitò la capitolazione della città, fornendo ai Tedeschi una rapida e promettente occupazione non solo del centro nevralgico del Paese, ma anche la possibilità di creare un valido bastione contro le ulteriori avanzate alleate. La difesa eroica degli ultimi reparti del Regio esercito furono travolti dagli ex alleati germanici, perché male organizzati e senza ordini precisi, subendo il completo massacro. Gli unici episodi in cui i Tedeschi furono indotti alla desistenza, furono i casi della Sardegna e della Corsica, dove però la reazione delle divisioni italiane, tra cui la Friuli e la Cremona, se fecero evacuare dopo aspri combattimenti gli uomini della Wehrmacht e delle SS dalle due isole, non intaccò nella sostanza la loro efficienza bellica.
Molto si è discusso, e ancora oggi è un argomento di ampio dibattito storico e morale, a proposito della “fuga” a Brindisi, della scelta di non difendere Roma, tuttavia si può serenamente parlare di diffusa e condivisa miopia politica e militare da parte della Corona, del Governo e dello Stato maggiore generale nell’aver messo in condizione le Forze armate italiane di doversi arrendere, perché inidonee e non preparate alla prevedibile reazione dei Tedeschi.
L’aver giocato poi la partita con gli Alleati in modo opportunista, sperando di farsi sberleffo di loro e tenersi buona una possibilità di doppio o triplo gioco, ha consentito ad Eisenhower di non spingersi oltre Salerno per uno sbarco, favorendo così automaticamente la strategia di Kesselring, che aveva tutto da guadagnare di fronte a quella sterile ragnatela di cospirazioni badogliane.
Lo sbarco nella città campana non fu fermato dai Tedeschi, che reagirono comunque bene, ma Kesselring predispose una serie di formazioni parallele tanto da smorzare gli effetti della penetrazione peninsulare degli Anglo-americani. Una volta assestate le truppe germaniche sulla linea Gustav, nel restringimento dello Stivale tra la foce del Garigliano e quella del Sangro, la resistenza fu accanita, tanto da rimanere granitica anche a seguito del timido sbarco ad Anzio nel gennaio del 1944. Il promontorio di Cassino da principio semplice presidio, dopo alcuni insensati bombardamenti divenne una roccaforte inespugnabile, tanto da divenire un vicolo cieco per gli Alleati in cammino sulla via Casilina. Anche sul fronte adriatico gli scontri non furono da meno, tanto da battezzare la battaglia avvenuta ad Ortona la “Stalingrado d’Italia”.
Roma venne presa dagli Americani solo in giugno, ma a caro prezzo, dopo sanguinosi e ripetuti attacchi, che le truppe tedesche ostacolarono colpo su colpo. Per di più l’azione di entrare in città si rivelò inutile sotto il lato prettamente strategico. Il generale Clark, esaltato dall’evento di cui era protagonista, non sfruttò il vantaggio accumulato per realizzare una proficua azione di aggiramento e infliggere un colpo mortale alle unità tedesche, che si trovavano a nord della Capitale, permettendo loro invece di organizzarsi e predisporre nuove sacche di resistenza sull’Appennino centrale.
Un anno era passato dallo sbarco in Sicilia, ma le divisioni germaniche mantenevano ancora il presidio di oltre metà della Penisola. Proprio per il protrarsi delle operazioni campali in ciascuna regione italiana la drammaticità del conflitto bellico iniziò a coinvolgere sempre di più la popolazione, sia per le incessanti azioni di combattimento del fronte in prossimità dei centri abitati, sia per la politica di sopraffazione e di vendetta operata dai Tedeschi sugli Italiani, indistintamente se militari combattenti, prigionieri o semplici civili. Gli eccidi più famosi sono solo l’epifania di un fenomeno diffuso e ampiamente utilizzato sia in funzione operativa, ma anche seguendo delle logiche disumane di vendetta e per nulla giustificabili sotto l’aspetto militare.
In questi frangenti tuttavia emerse anche l’occasione per una reazione italiana, non necessariamente scontata, vista la sostanziale assenza dello Stato nel periodo post armistiziale. Oltre alle formazione di resistenza ad opera dei partigiani, che in tutte le zone del centro-nord si andavano formando, anche in collaborazione con il servizio informazioni alleato, ebbe il battesimo del fuoco la prima formazione militare italiana post-fascista. Il 1° Raggruppamento motorizzato, seppur senza grandi consistenze di uomini e materiali, partecipò con valore agli scontri presso Mignano Montelungo, non lontano da Cassino, dando l’avvio alla ricostruzione delle Forze Armate italiane, seppur tra mille difficoltà frapposte dalle stesse autorità alleate, prima con il Corpo Italiano di Liberazione e poi con i sei Gruppi di Combattimento.
Una volta liberata Roma, il fronte italiano perse l’attenzione da parte di Londra, Washington e Berlino. Dall’estate del 1944 le cose cambiarono su entrambi gli schieramenti, concentrando gli sforzi sul fronte occidentale, apertesi le ostilità in Normandia appena due giorni dopo il sopraggiungere degli Alleati nella Capitale. Tuttavia gli scontri successivi in Italia non furono da meno dei precedenti, considerata la lentezza con la quale gli Anglo-americani procedettero lungo la Penisola. Le linee parallele di difesa, che i Tedeschi avevano delineato nella zona tra Napoli e Roma, proseguirono anche in Italia centrale, principalmente in prossimità del lago Trasimeno. Superata anche Firenze, un altro inverno arrivò e la linea Gotica, che ricalcava grosso modo parte del tracciato dell’operazione “Alarico”, permise alle unità germaniche di bloccare il nemico e di costringerlo a trincerarsi, anche a causa del clima rigido.
Dopo Montecassino ed Ortona, anche qui i Tedeschi mostrarono una grinta e una capacità di resistenza non comuni, per le quali gli Alleati ebbero la meglio solo per la copiosità dei mezzi a disposizione e per la crescente stanchezza che la Germania aveva accumulato dopo sei anni di guerra combattuta su tutti  fronti del continente europeo. L’aspetto militare dell’azione tedesca, se si considera che la campagna d’Italia durò circa due anni, fu un capolavoro di resistenza bellica, anche a fronte dell’iniziale propensione germanica a difendere solo il settentrione del Paese.
Altra faccenda ovviamente è l’aspetto morale e criminale dell’esperienza. Numerosi potrebbero essere gli episodi da elencare, in cui militari della Wehrmacht, della Gestapo o delle SS si sono macchiati in territorio italiano, evidenziando agli occhi di coloro che si occupano di storia militare come l’aspetto operativo e neutro di una guerra tra due eserciti contrapposti possa essere stravolto da accadimenti che esulano dai valori classici di onore e cavalleria o da quelli tecnici di strategia e tattica.
Per questi motivi numerosi dei protagonisti di tale campagna furono messi alla sbarra per l’emanazione di ordini criminali. Tra i tanti, che chi più chi meno pagarono almeno con una detenzione, spiccano lo stesso Kesselring, Herbert Kappler e Walter Reder. Sta di fatto che la posizione incerta avuta dall’Italia durante il conflitto, come pure il mancato procedimento nei confronti dei crimini di guerra commessi dagli Italiani in venti anni di guerre fasciste, hanno portato un’imbarazzante e onnicomprensiva coltre di oblio su ampia parte delle responsabilità dirette e indirette di molti eccidi commessi nel nostro Paese dalle autorità politiche e militari tedesche.
per informazioni: risorgimento23@libero.it

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